Ci sono città – in tutto il mondo più conosciuto e in quello meno conosciuto – il cui abitato è dominato da una costruzione, un campanile, una torre, oppure una montagna, un picco, un avvallamento. Un elemento, cioè, che sintetizza e riassume, o forse appiattisce il resto della città. Si pensi, ad esempio, alla cattedrale di Chartres, visibile da qualsiasi landa sperduta per un raggio di alcune decine di chilometri. Si pensi, ancora, al Pan di zucchero di Rio de Janeiro, roccia vellutata di clorofilla, presenza inquietante e rassicurante nel contempo, onnipresente. Si pensi, infine, a Varanasi, capitale spirituale dell’India, fagocitata dalla presenza della “madre di tutti i fiumi”, il Gange misterioso.
Novara “è” la cupola antonelliana della Basilica di San Gaudenzio. Alta, slanciata, quasi disarmonica nel rapporto tra altezza e larghezza, in ogni caso ardita. Curiosa la storia di questo luogo di culto che, sorto a partire dal 1577 su disegno di Pellegrino Tibaldi (con campanile di Benedetto Alfieri), volle, con le sue decorazioni inusitate per l’epoca, essere in qualche modo il simbolo dell’effervescenza artistica dell’epoca barocca. E lo divenne, ma non solo per quello stile: in particolare nell’epoca delle penetrazioni napoleoniche nella Padania, divenne il rifugio, il ricettacolo di opere d’arte salvate dalla distruzione di monumenti rasi al suolo per far spazio al nuovo, al cosiddetto nuovo. E continue aggiunte rinascimentali alla basilica del santo patrono finirono col renderla il vero museo della gente e dell’intera città.
Finché l’Ottocento irruppe nella vita dei novaresi e l’integrazione del territorio nel Regno sabaudo – e poi a quello d’Italia – spinse gli amministratori a ridisegnare in profondità l’intera città, con il talvolta sciagurato abbattimento di chiese, mura e palazzi. Ma iniziative senza dubbio encomiabili non mancarono, come ad esempio proprio l’edificazione della cupola della Basilica di San Gaudenzio, affidata al grande architetto Alessandro Antonelli. Che passò gli ultimi 44 anni della sua vita, dal 1844 al 1888, a lavorare al progetto e alla sua realizzazione, parallelamente all’edificazione della Mole antonelliana di Torino. Si accavallarono, infatti, ovvi problemi strutturali a penurie finanziarie, e l’avversità di buona parte della popolazione. Ma la lunga gestazione permise ai novaresi di abituarsi a quell’ardita struttura, giungendo persino ad affezionarvisi. Così oggi Novara “è” la cupola antonelliana, senza se e senza ma.
Passeggio per le vie del centro storico in un sabato freddo ma assolato. Novara è un grosso borgo, più che una piccola metropoli. La gente si conosce, si saluta, spettegola deambulando nelle vie pedonali, sbircia le vetrine mentre i bimbi pattinano in una pista di ghiaccio da festa foranea e i vecchi conversano della crisi di governo sulle panchine attorno al vecchio e malconcio castello. Nel cortile del Broletto – secoli X e XI –, un bell’esempio di architettura civica medievale, le giovani e imbellettate mamme tecnologiche passeggiano i loro frugoletti d’uomo trattandoli come principini. Una città appagata, “borghese” che di più non si può, ricca se non addirittura opulenta. E rassicurata dalla svettante cupola antonelliana, che spunta ogni volta che si gira un angolo, come per dire ai novaresi che il mondo cambia e si rinnova, certo, ma con prudenza e lentezza, molto lentamente. Saliti i gradini della cupola – arditi come tutto – la vista della città placida e sonnacchiosa sembra dire che il mondo non cambia, resta sempre uguale a sé stesso.
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