Cuba: dove il "mojito" diventa romanzo. Qui Hemingway scrisse il suo più celebre libro. Aprile 2011.
Mi aveva detto un carissimo e competente amico letterato argentino che per capire Cuba bisognava almeno visitare il luogo dove Ernest Hemingway aveva scritto Il vecchio e il mare, perché così avrei intuito almeno un po’ quel che può trattenere qui a Cuba uno straniero, e uno straniero che vive di cultura. Così, guidato da un ingegnere meccanico che fa il tassista per sopravvivere decentemente – il salario come ingegnere sarebbe di 18 dollari al mese –, passo dalla troppo turistica Habana Vieja all’improvvisa campagna cubana che, all’avvicinarsi del mare, diventa un incanto di banani e palmizi, e di altre essenze tropicali. Alle fermate degli autobus s’accalca una folla incredibile: non ci sono mezzi per assicurare corse regolari, per cui la gente si piazza lì anche ore ed ore in attesa di un qualche bus che possa avvicinarli alla città. Ma non c’è il minimo segno di nervosismo, tutti aspettano con nonchalance e, direi, con sano fatalismo senza il quale sarebbe difficile sopravvivere. La cittadina è composta di villette a un solo livello: qualche modesto arricchito s’è avventurato a sopraelevare di un livello la sua casetta, con risultati di solito poco piacevoli. Qua e là si scorgono abitazioni precedenti alla Rivoluzione, tutte o quasi in sfacelo, eppure ancora fascinose di polvere e decadenza. C’è poco d’altro lontano dal mare, solo casette e polvere e bambini sbizzarriti. “La terrazza” è il bar-ristorante dove Ernest Hemingway amava trattenersi a bere e, talvolta, a scrivere. Traeva ispirazione dalla vita dei pescatori, che qui venivano a bersi il loro rón al termine del lavoro, ebbri di sole e salsedine, cansado di pesca e di miserie casalinghe. Qui fantasticavano, qui lasciavano che la brezza marina scompigliasse i loro pensieri, èportando loro l’umidità e gli odori della piccola cala dove l’acqua marina amava prendere un momento di riposo. Qui aspettavano la notte, serviti dai cubani dalla pelle scura e dagli abiti bianchi come le nuvole. Oggi à rimasto poco di tutto questo, il locale è pulitissimo (e caro), sulle pareti fanno bella mostra di sé dei trofei di pesca – pesci impagliati, come da noi si fa coi cinghiali o coi cervi – e le foto in bianco e nero di Ernest Hemingway in tutte le pose, soprattutto assieme a Fidel Castro.
M’avvio verso la spiaggia, o per meglio dire la piazza della cittadina che degrada verso il mare e la piccola fortezza che i soldati cubani sembrano voler difendere fino alla morte. Di fronte c’è un piccolo monumento neoclassico – Hemingway sarebbe inorridito nel vederlo, o forse no –, che racchiude un busto del nostro eroe, voluto e realizzato dagli stessi pescatori di Cojimar. Ma quel che pare assolutamente autentico sono i ragazzini e le ragazzine che sguazzano nello specchio d’acqua antistante la piazza, che amoreggiano naturalmente, che adescano altrettanto naturalmente l’estraneo che io sno, che si abbandonano al loro gioco preferito, l’indolenza. Un gioco fantastico e pericoloso. Ernest Hemingway ci lasciò le penne.
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