giovedì 12 gennaio 2012

Moqattam, dagli chiffonier


Nell'Egitto che vota, visita al quartiere dove l'immondizia diventa un mezzo di sopravvivenza.

Quasi nel cuore del Cairo, sull’altro versante di una profonda ferita del suolo rispetto all’orgogliosa Cittadella, sorge un umilissimo quartiere – uno spazio, piuttosto, o un’ipotesi di convivenza – che da tempo ormai è nota anche al grande pubblico mediatico, per via dei santi contemporanei che qui hanno vissuto e vivono ancora, portando il loro servizio. Soeur Emmanuelle in testa. È questo il quartiere detto Moqattam, regno degli
chiffonnier, cioè di coloro che frugano nell’enorme attigua discarica cairota per trarne qualche piccolo o grande tesoro, in ogni caso una fonte di sostentamento, misero quanto si vuole ma pur sempre sostentamento. Per le famiglie del quartiere, che sono in massima parte cristiane, come testimoniano le sommarie luminarie natalizie che hanno voluto appendere nelle loro strade. Una storia che è un calvario: gli zabbaleen ne sono all’origine. Si tratta di una comunità religiosa della minoranza cristiana copta, che raccolgono la spazzatura del Cairo, da 80 anni in qua. Zabbaleen significa in arabo proprio “popolo della spazzatura”. Sparsi su sette diversi insediamenti della grande urbanità del Cairo, la popolazione zabbaleen è valutata sulle 70 mila unità. Il più grande insediamento è proprio Moqattam, ai piedi del montagne omonime, accanto a Manshiyat Naser, un insediamento abusivo musulmano.

Gli zabbaleen raccoglievano i rifiuti porta a porta ditero una piccola offerta. Poi riciclavano e riciclano tuttora fino all’80 per cento dei rifiuti raccolti. Erano famosi, gli zabbaleen, perché giravano per la città su carretti tirati da asini, mentre oggi spesso girano con vecchi camioncini. Gli zabbaleen costituiscono una comunità forte e affiatata, nonostante malattie, precarietà e promiscuità.

È indicibile la sporcizia del quartiere, anche se dicono fosse ben peggio qualche anno addietro. Non c’è cultura della pulizia, non può essercelo. Ma c’è una grande, profonda cultura dell’accoglienza tra questa gente. Una cultura ben più importante di quella dell’igiene pubblica. Chiedo la strada verso le chiese scavate nella montagna di cui ho sentito parlare. Lo chiedo a un uomo anziano vestito d’un caffetano che era bianco, secoli fa. S’apre in un sorriso sdentato, s’eleva sopra la miseria materiale per indicarmi con l’indice della mano destra sporca e raggrinzita una via in ascesa, una scalinata sbozzata e precaria. Ma non vuole lasciarmi andare, vuole sapere qualcosa, da dove vengo, vuole parlare, sentire la mia voce forestiera. Dirmi che Gesù è rinato. Raccontarmi in tre vocaboli che non capisco tutta la protologia e l’escatologia. Una lezione di vita e d’umanità. Umanesimo allo stato nascente, puro.

I bambini sfrecciano, s’arrestano, fanno capriole, chiedono un bonbon, mi prendono per mano e m’accompagnano dove non importa. Basta essere assieme. Un’altra lezione di presente assoluto. Un uomo mi presenta la sua piccola infagottata, mi saluta anche se non l’ho mai visto e se non lo vedrò mai più. Vuol sapere il mio nome, e lo ripete tre, quattro, dieci volte. Mi nomina, mi crea, come Dio. Gratuitamente.

Sopra l’abitato i cristiani che non potevano costruire le loro chiese, hanno con l’astuzia del serpente e l’innocenza delle colombe scavato nella roccia i loro luoghi di culto. E più la popolazione del quartiere di Moqattam cresceva, più allargavano quelle caverne artificiali. Oggi ospitano migliaia di persone. Migliaia di maestri d’umanità. Che poi la miseria crei abomini, che la disperazione porti alla morte, che la malattia diventi endemica non sono certo cose di poco conto. Ma, come scriveva Tagore, è proprio negli immondezzai che crescono i fiori più belli.

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