lunedì 6 febbraio 2012
Piazza Tahrir, il luogo della rivoluzione
Continua la transizione araba, alti e bassi, violenze e pacificazioni. Dall'esito della rivoluzione egiziana dipende il futuro del mondo arabo.
Davanti alla moschea Omar Makram, che dà su Midan Tahrir, Piazza Tahrir, proprio di fronte al Museo egizio, c’è un assembramento di gente vociante. Un uomo di statura modesta avanza tra la folla, scortato da una dozzina di ener-gumeni. È Amr Mussa, già presidente della Lega araba, ora candidato alla pre-sidenza del Nuovo Egitto. Come Mussa, tutti i candidati stanno cercando di intercettare il voto dei musulmani, dopo che le elezioni legislative hanno dato risultati sorprendenti: gli attesi Fratelli musulmani (partito islamico “modera-to”) hanno sfiorato il 40 per cento, mentre gli inattesi salafiti (radicali) s’avvicinano al 25. I liberali si sono fermati al 15. Non mancano le accuse di brogli e d’inganno perpetrato ai danni degli analfabeti, che in Egitto sarebbero la metà della popolazione. Sconfitta degli aneliti di libertà del popolo?
C’è sempre gente a Piazza Tahrir da quel 25 gennaio 2011 in cui una manife-stazione s’era d’improvviso radunata per protestare contro Mubarak e la man-canza di libertà. Come un vaso colmo che versa il suo contenuto tutt’attorno a sé. Certo, gli entusiasmi si sono raffreddati, dopo i gravi incidenti sotto della torre tv Maspero, il 9 ottobre scorso: 27 morti e centinaia di feriti. Ormai le proteste si concentrano sull’esercito, onnipresente nella società egiziana.
Due o tre gruppi di giovani e meno giovani scoppiano in grida di protesta, sventolano bandiere e stendardi, qualche ritratto dei martiri di piazza Tahrir (si parla ormai di 800 morti e 5 mila feriti). Un venditore di magliette a tema rivoluzionario, parla un po’ d’italiano, non si preoccupa: qui ormai la protesta è normale. «Abbiamo imparato a parlare». A essere liberi? «Vedremo».
In un angolo della piazza un palazzo è ingabbiato in strisce di plastica verde. Accanto, un muro di cubi di cemento d’un metro di diametro è stato eretto dalle autorità per evitare le infiltrazioni dei contestatori. Non tutti sanno che quel palazzo bruciato il 16 dicembre 2011 forse per caso o forse per dolo, ha mandato in un fumo il simbolo stesso del tentativo europeo di conciliare Islam e modernità: era l’Accademia scientifica d’Egitto, fondata da Napoleone nel 1798, ricca di 200 mila volumi di enorme valore scientifico, un pezzo della sto-ria del Paese.
Sono andato alla ricerca della gente di Piazza Tahrir, quella della prima ora, quella che ha rischiato sulla propria pelle. E l’ho trovata. Ramy Boulos (26) è un copto cristiano, cattolico, ingegnere medico. Da qualche mese ha scelto di lasciare la professione per dedicarsi alla difesa dei diritti umani. Ora lavora per l’Egyptian Center for woman rights, per la difesa dei diritti delle donne. Lui a Piazza Tahrir c’era già il 25 gennaio. La vigilia aveva manifestato su Fa-cebook la sua frustrazione per lo stallo in cui versava la libertà all’egiziana. Poi il 25, consultando il suo smartphone, ha sentito dei primi incidenti. «Ho intui-to che qualcosa di grande stava succedendo, e mi sono precipitato sul posto». Non sa bene quali siano state le ragioni dello scoppio: «Credo che ad accomu-narci tutti fosse il desiderio di una vita migliore. Gli slogan chiedevano pace, libertà e giustizia sociale, la sintesi delle rivendicazioni». Non è chiaro nem-meno chi abbia iniziato: «Nessuno può dirlo. Ma so che ci guardavamo in mo-do diverso dal solito, più libero e più fiducioso». Social network? «Sono i no-stri strumenti di aggregazione e battaglia. Abbiamo cominciato a pubblicare video, interviste, paragonando le dichiarazioni dei capi dell’esercito e il loro effettivo comportamento».
Ahmad el Bohy (30) è anche lui ingegnere, un libero professionista. È musul-mano sufi, ha due figli. Se Ramy s’era beccato sulla testa una pietra che l’aveva ferito non gravemente, Ahmad, anch’egli un rivoluzionario della prima ora, il 26 gennaio 2011 s’è beccato due delle famigerate pallottole di gomma tirate dai soldati egiziani sulla folla ad altezza d’uomo, provocando tra l’altro centi-naia di casi di cecità. Ahmad è stato colpito solo su braccio destro e la spalla sinistra. «In realtà noi manifestanti non volevamo attaccare la polizia e l’esercito, ma solo resistere. Così come loro non avrebbero voluto picchiarci, ma farci sgomberare. Non ci sono riusciti. E la folla ha manifestato non solo un grande coraggio, ma anche una intelligenza tattica che ha fatto infuriare le forze dell’ordine, che si sono viste derise dai nostri stratagemmi». Il futuro per Ahmad è chiaro: «Abbiamo pagato col sangue il nostro avvenire. In Egitto non lo si sparge di frequente e quando scorre trasmette una forza ancestrale. La libertà l’abbiamo sperimentata, ormai non la lasceremo più. Nemmeno a chi vuole imporre la tradizione islamica a tutta la popolazione».
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