venerdì 21 marzo 2014

Transnistria, il Paese-striscia che nessuno vuole riconoscere


Reportage (2009) dalla nazione-non-nazione che chiede di nuovo, approfittando dell'annessione della Crimea da parte di Putin, di diventare una provincia russa. 

Da quando ne avevo sentito parlare, cioè circa sei anni fa, nel mio carnet mentale mi ero riproposto di visitare la Transnistria, prima o poi, a tutti i costi. La mente del viaggiatore conosce questi imperativi categorici ai quali è difficile derogare, salvo incidenti maggiori, impedimenti insuperabili. Il viaggiatore è paziente e sa che prima o poi i suoi desideri si avverano. Così quest’oggi – accompagnato da Irena, trentenne che lavora alla Caritas Moldova, e Galina, ricercatrice sociale e madre di quattro figli – mi trovo sulla strada per Tiraspol, la “capitale” dello “Stato” della Transnistria, sottilissima striscia di terra di circa tremila chilometri quadrati e 400 mila abitanti (quasi la metà sembra che sia però all’estero) che separa la Moldova dall’Ucraina, a 76 chilometri da Chisinau e a 102 da Odessa. Uno Stato assolutamente unico nel panorama geopolitico europeo, ma assai vicino agli unici “Stati”, tutti caucasici, che l’hanno riconosciuta: Abkhazia, Ossezia meridionale e Nagorno-Karabakh. Bozzoli di entità statali che approvano altri bozzoli, quasi per reciproco conforto. Unica eccezione, la Russia, che guarda caso ha riconosciuto anche Abkhazia e Ossezia meridionale…

Cos’ha d’interessante la Transnistria? È un Paese povero, in alcune remote regioni addirittura poverissimo, quasi misero, afflitto ancora da mancanza d’elettricità costante, con un’agricoltura rudimentale, fabbriche ormai chiuse, come quelle che scorgo nel centro della “capitale”, popolazione giovane alla sola ricerca di espatrio, un’economia che quindi si regge solamente sulle rimesse degli immigrati… È un Paese nato dopo una guerra cruenta, guerra che fece alcune centinaia di morti nel 1991, nel periodo del crollo dell’Unione Sovietica e della corsa all’indipendenza selvaggia. Un Paese che ha fatto della sua fedeltà al comunismo e alle relazioni con la Russia il proprio dover essere e soprattutto il proprio poter esistere. Non a caso nella via principale di Tiraspol, di fronte al monumento che ricorda la vittoria sui moldavi – un carro armato, manco a dirlo –, si ammira una gigantografia dell’ultimo incontro tra il presidente russo Medvedev e “quello locale”, di nome Smirnoff, come la vodka. Tutto è perciò rimasto come ai tempi del comunismo, l’architettura e i monumenti, la retorica degli striscioni e delle foto così come la povertà poco dignitosa delle periferie delle città.
Una pubblicistica assai sviluppata nelle riviste di geopolitica, vuole che la Transnistria sia il concentrato di tutte le perversioni politiche del continente. Così sarebbe il luogo privilegiato di alloggio delle cosche mafiose russe congiunte con quelle di altri Paesi; così sarebbe una plaque tournante, cioè uno snodo particolarmente libero del traffico di armi e di segreti militari provenienti dal disfacimento dell’impero sovietico, così sarebbe persino il luogo delle perversioni massime della prostituzione dell’Est europeo, così le auto in circolazione nella regione sarebbero al 70 per cento di provenienza illecita. Capirete bene come, avendo nella memoria questa pubblicistica, mi attendessi di vedere poco meno che uno Stato anarchico, in preda alle peggiori delinquenze e alle più sfrenate depravazioni. E invece no.

È vero, una giornata passata in Transnistria non può avermi dato una visione esauriente della situazione; ma quel che ho visto coi miei occhi e soprattutto i contatti avuti con persone che vi vivono, e che pure godono di osservatori privilegiati per la conoscenza della regione, mi fanno dire che sì, lo “Stato” della Transnistria è veterosovietico, marchiato da un chiaro trasporto nostalgico verso la “madre di tutte le rivoluzioni”; è vero che la miseria di vede oltre i paraventi ben dipinti del centro della città. Ma è anche vero che tutte queste colpe gettate sulle spalle di questo povero Paese sembrano veramente eccessive. Anzi, la gente pare accogliente, aperta allo straniero, povera ma degna; parla poco di politica, una cosa delicata come lo era nei Paesi ex-comunisti, ma parla di tante altre cose. E le auto non sono tutte rubate, e l’estetica del mobilio urbano non è popolata di donne senza veli, e le mafie se pur esistono – perché in terre di passaggio come la Transnistria esistono per forza, in tutto il mondo – non hanno certo una grande visibilità, e nemmeno una forte influenza sulla gente comune. Insomma, la Transnistria pare uno “staterello” che coagula interessi convergenti negativi (no alla Moldova, no alla Romania e no all’Ucraina) più che positivi (sì alla continuazione della sovieticità, sì allo sviluppo della malavita).

Nei fatti, la Transnistria opera come uno “Stato”, coi suoi ministeri e le sue amministrazioni, ma patisce l’isolamento: il treno Chisinau-Kiev non funziona più, e la via ferrata è stata saccheggiata, diventando inutilizzabile; le strade sono malmesse, e non consentono più collegamenti adeguati; il commercio, almeno quello ufficiale, è diminuito, perché deve fare impossibili percorsi per giungere a destinazione; i telefoni analogici per lungo tempo sono stati interrotti, ed ora quelli cellulari funzionano grazie alle compagnie ucraine o moldave; l’edilizia s’è fermata, salvo nella costruzione di villette finanziate dalle rimesse degli immigrati; di fabbriche non si vede nemmeno l’ombra, o meglio si vedono le ombre delle officine dismesse… Ma la gente sorride, riesce ancora a farlo, e pure con una certa fierezza. L’identità della Transnistria? «Avere due passaporti – mi risponde un uomo d’affari –, ed essere molto pratici nello sbrigare le proprie faccende: se non si arriva al proprio scopo in un modo, ce ne sarà un altro». Mentre un pope ortodosso, Vladimir, mi conferma un’impressione provata dinanzi al palazzo del parlamento vedendo la gente passare: «La gente vuole vivere, ma la politica glielo impedisce nei fatti. Allora bisogna cercare di vivere senza la politica».

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