venerdì 10 ottobre 2014

Kok Tobe, la collina blu

Viaggio in Kazakistan/3 - Sopra Almaty, un luogo dove la popolazione ama salire per divertirsi e sentirsi orgogliosa di appartenere a un Paese in crescita

Si raggiunge il crinale della collina, assai allungata e affilata come la morena di un ghiacciaio che accompagna la discesa della città dalla montagna alla pianura, grazie a una funivia degli anni Sessanta che dall’epoca non è mai stata rinnovata, nemmeno nelle sue cabine di legno e di metallo, con le porte che non chiudono bene, controllate comunque da un addetto stazza 150 chili che appena mette piede nell’abitacolo fa tremare sinistramente ogni cosa. I pilastri di scambio sono pitturati di fresco, ma non si sa bene quali siano le loro reali condizioni. La salita costa l’equivalente di due euro, ma molti kazaki non possono permettersi nemmeno tale modesta spesa, preferendo la salita a piedi o colla navetta, che costa 40 centesimi. Nell’ascesa mi diverto ad ammirare il paesaggio, la maestosa vista sulla città di Almaty, quella vecchia e quella nuova, ma soprattutto a cogliere negli occhi della gente la sorpresa, la gioia e la meraviglia di un mondo che s’eleva per incanto. Sguardi di gente semplice, della steppa, facce mongole senza le consuetudini vestimentarie dei musulmani.
La collina è dominata da un’altissima torre di comunicazioni in puro stile sovietico, inaccessibile a differenza di altre, come a Tashkent o a Kiev. Quel che c’è d’interessante quassù, oltre alla vista che sempre incanta verso la città e le montagne innevate, è una sorta di vasto luna park kitsch quanto si vuole ma amato alla follia da grandi e piccini: giostre, lancio delle freccette, tiro a segno, enormi castelli gonfiabili da scalare, montagne russe in tono minore... Ma anche un mini zoo con una dozzina di gabbie che ospitano malconci animali, dai lama agli stambecchi, dai cervi ai pavoni, dagli agnelli a strane galline arlecchine. E poi bar e ristoranti dalla dubbioso qualità. Una famiglia che viene dalla steppa nel cuore del Paese vuole farsi fotografare con me, che con tutta probabilità sono il solo straniero sulla collina. Mi dice: «Mi chiamo Gengis, vengo dalla steppa, ho 250 cavalli, 400 mucche e 8 figli». Mi sento povero e imbarazzato: «Mi chiamo Michele, do lavoro a 16 persone, dirigo quattro riviste e alcuni siti web, ho pubblicato quaranta libri». Riprende Gengis un po’ interdetto: «Tua moglie non ti ha dato figli?». «Non sono sposato». «E che cosa lasci di te dopo di te?». «Qualche pensiero e un po’ d’amore». Meglio cambiar discorso: «Da dove vieni?», mi fa. «Dall’Italia». «Nibali!». Sorpreso dall’inatteso riferimento ciclistico mi sovvengo che il corridore italiano, fresco vincitore del Tour de France, è capitano della squadra kazaka chiamata Astana, “la capitale”. E poi aggiunge: «Milan, Juve, Inter, Roma...». Orgoglioso. Gli faccio: «E i papi e gli imperatori romani?». E lui: «Ah sì, quel Francesco che difende gli immigrati... Ma quali imperatori?». «Gli imperatori romani...». «Ma di imperi ci sono solo quelli di Gengis Khan e di Tamerlano!». Così è se vi pare. E mi fa offrire da uno dei suoi otto figli, un frugoletto dalla faccia perfettamente rotonda e schiacciata, una caramelle color verde pisello, un pasticcio glutinoso troppo dolce: «Modernità», mi dice soddisfatto. Chissà che cosa significa per lui una tale parola.
La discesa a piedi è un ringraziamento per la semplicità di questi popoli centrasiatici, che spero non venga spazzata via dal consumismo globale. Ma il timore di sbagliarmi è grande.

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