giovedì 15 marzo 2012

Lugano: il lago, la montagna, l’habitat


Una città, un cantone, un luogo che sale e che scende. Esistenziale.

Una conferenza nel Canton Ticino, nel nord del cantone, nel “Sopraceneri”, cioè oltre il Monte Ceneri, un modesto rilievo che però pare una diga, un muro insuperabile, un enorme ostacolo culturale. Varcarlo, è quasi passare in un altro mondo, superare le colonne d’Ercole, aprire le porte all’incognitus. Siamo globalizzati, ma nel contempo localizzati in modo inatteso, talvolta compulsivo, come nei Nimby, not in my back yard, mai nel mio giardinetto.

Perdo il treno di ritorno a Lugano, mi tocca aspettare un’ora, un secolo e un istante, issato sulla terrazza ventosa del bar dinanzi alla stazione, un luogo fatato e misterioso: i rintocchi di un vicino campanile risuonano sull’abitato sottostante, come un memento homo pacificato, mentre il lago increspato dal vento impetuoso si tinge di blu profondo come il mare, o piuttosto il lago; una barca sfida il freddo e i marosi, pardon, i lagosi, come se dovesse varcare uno stretto di dimensioni paurose. Ma il sole bacia l’abitato che sale lungo le pendici dei monti ancora imbruniti dall’inverno, ma pronti anch’essi a varcare la soglia dell’incognitus primaverile. Lugano appare una vasta scalinata d’immobili disposti come cubi striati sui declivi che scendono all’acqua come temendola per il freddo dell’abbraccio liquido, ma cercandola per la sua orizzontalità senza possibili discussioni.

La luce della sera che s’annuncia, delle ombre lunghe che, rapide, si distendono sulle ciclopiche scalinate della città, raccontano una vita al tepore del lago finché il lago non muta d’umore, diventando cupezza e tenebrità. Sulle montagne più elevate la neve ha perso la sua battaglia per la sopravvivenza, accettando come da tradizione la kenosis del proprio essere perché viva, la natura misteriosa fatta di anfratti e vapori, di picchi e di fragilità rocciose, di tutto e di niente. Ma la neve concede per qualche giorno ancora la sua intrinseca luminiosità in vista della parusia annunciata della primavera, della saga verde putativa.

Le cupolette verdi dei campanili della città attirano gli ultimi raggi come fossero gelose della notte incombente che ruberà loro ogni bellezza, se non quella dell’artificiale luminosità. Le scale di cemento, immense e minuscole a seconda delle ottiche applicate allo sguardo, catturano le ultime luminosità, mentre l’obliqua scalinata dei contrafforti spogli e bruni oltre il lago vede i suoi gradini che scendono al lago allungarsi a dismisura, fino a cedere la loro identità all’uniformità grigia. Come una metafora della mia e tua e nostra esistenza, destinate a risuscitare dalla morte.

1 commento:

Un anno insieme ha detto...

Grazie Michele di questo dipinto di Lugano e della Svizzera italiana. Anche la tua presenza è stata per me allargare l'orizzonte del nostro praticello anche agli altri prati e agli altri giardini.