giovedì 22 marzo 2012

Antigua Guatemala, all’ombra dei tre vulcani


Viaggio in America Centrale/2 - La perla del Guatemala è incastonata nella geografia e nella storia della regione.
La capitale del Guatemala si chiama Guatemala, come lo Stato centroamericano, nonostante noi stranieri ci ostiniamo a chiamarla Ciudad de Guatemala, proprio per distinguerla dal nome dell’intero Paese. Per i guatemaltechi, invece, la loro capitale deve chiamarsi semplicemente Guatemala, tanto che la vecchia capitale si chiamava anch’essa Guatemala. Oggi, per distinguerla dalla Nuova Guatemala, cioè da Ciudad de Guatemala, la si chiama Antigua Guatemala, o più brevemente Antigua.

Tutto ciò per introdurci a quella che unanimemente viene considerata la più bella città del Guatemala, tanto che l’Unesco nel 1979 l’ha iscritta in toto nel suo albo dei luoghi “patrimonio dell’umanità”: Antigua è un’esperienza esistenziale. Certo, avevo letto non poco della città, della sua posizione geografica straordinaria, inserita com’è in un pianoro custodito dalle silhouette di tre vulcani, Agua, Fuego e Acatenango, che in realtà da sempre sono la croce e la delizia della città, più volte distrutta e ricostruita. Avevo letto anche della sua storia: gli spagnoli l’avevano eletta capitale solo in un terzo tempo, dopo Iximché, scelta per dominare sulla tribù maya dei kaqchiquel, che però si ribellarono, e dopo che i conquistadore decisero di spostarsi ad Volcán Agua, alle pendici del vulcano, che però fu spazzata via da una colata immensa di acqua e lava – un lago si era infatti creato nel cratere dopo la precedente eruzione –, nel 1541. Allora fu deciso di costruire l’attuale Antigua, che allora si chiamava semplicemente Guatemala, appunto, nel 1543. Nel XVII e XVIII secolo la città fu effettivamente il centro della dominazione coloniale spagnola in America Centrale, arrivando a contare 38 chiese! Ma l’ennesimo terremoto, devastante quella volta, del 29 luglio 1773, costrinse i dominatori a fondare un’altra capitale, l’attuale Ciudad de Guatemala. Antigua prese allora il nome attuale e fu abbandonata dalla maggior parte dei cittadini. Ma non da tutti, e questa fu la sua fortuna, perché i pochi rimasti cominciarono a ritirare su qualche muro, a riprendere i commerci, a ridare colore alla città. Fino al nuovo terremoto del 1976, anch’esso devastante. Da cui la città si è risollevata solo grazie all’iscrizione all’albo Unesco, il che ha attirato non pochi capitali per restaurare la città.

Avevo letto della sua periglosa geografia e della sua solemne storia, ma non mi immaginavo i sentimenti atemporali e aspaziali che mi hanno avvolto nella visita, pur breve, alla città. Sono state le inferriate ad attirare la mia attenzione, sin dai primi passi appena sceso dal bus: inferriate che si mostrano ovunque, nessuna uguale all’altra, ognuna con un suo cachet, con le sue civetterie, i suoi difetti e le sue visibilità. Ogni finestra degli edifici, tutti assai bassi, al massimo due livelli, per via della sismicità della regione, ha la sua inferriata, e così ogni abbaino, ogni minimo anfratto che si espone all’esterno. Certo, una lotta alla criminalità, una protezione contro l’insicurezza, ma non solo: nelle inferriate il genio colonial si è sbizzarrito con al sua fantasia codificata e pur sempre originale, creando un ambiente segmentato, ma pur sempre assolutamente unitario. E dalle inferriate sono passato alle facciate delle case, e poi delle chiese, quindi delle aiuole delle piazze, e i marciapiedi delle strade, la disposizione degli alberi negli slarghi, l’orientamento delle calli e delle avenide – è illusorio pensare che la struttura urbana spagnola, regolarissima, qui abbia trovato il suo luogo d’adozione: la perpendicolarità qui è un’opinione per una questione di minimi dettagli d’orientamento –, i cortili, magnifici spazi verdi ed esuberanti, le decorazioni dei tetti…

Dettagli che si riflettono anche nelle prospettive aperte da ogni calle e da ogni avenida, che immancabilmente rimandano alle sagome coniche, ma anche qui con “perfette imperfezioni”, dei tre vulcani. Accade come a Roma, dove il cupolone è onnipresente, ma sempre diverso a seconda delle prospettive da cui lo si guarda: in particolare il vulcano Agua si pavoneggia mostrando sempre un volto inconsueto e inatteso della sua personalità mutante e irascibile. Che dire della chiesa di San Francesco sormontata da un vulcano gigionesco? O le rovine della Catedral, attraverso i cui archi aperti al cielo s’indovina un vulcano misterioso? E, dietro le donne che lavano i panni nel pubblico lavatoio – giallo o quanto giallo! –, dinanzi alle altre rovine, quelle della Recolleción s’indovina un vulcano che ama incutere rasserenante calma. Mi perdo e non mi perdo ad Antigua Guatemala. Mi perdo e mi ritrovo sempre e comunque, perché i vulcani m’orientano, come il mare a Genova, come le montagne himalayane a Katmandu. Mi perdo nei pensieri e nelle evidenze estetiche, e mi ritrovo nella memoria della città che fu, che vive nei muri e nelle inferriate nonostante la trasformazione della città in grande scena turistica. Qui la Conquista ha dominato e schiacciato, finché la Natura ha costretto all’umiltà i conquistadore. Cosicché la città è diventata patrimonio di tutti i guatemaltechi, non solo i ladinos, ma anche i maya, ma anche i meticci. Patrimonio dell’umanità. Non dell’Unesco, ma della gente guatemalteca.

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