martedì 22 maggio 2012

Parma, della nascente nostalgia

Nel giorno dello stravolgimento politico grillino della città più ricca d'Italia, o quasi, non posso non riandare alle mie origini. E coglierne la natura esuberante, nobile e futuribile. 

Ho scritto di cento e cento città, anni di cammino e di visioni, di muri e gradini. Anni, decenni, alla scoperta dello sconosciuto e del poco o male conosciuto. Mai ho scritto una riga della mia città, quella che mi diede i natali, come si dice, quella che troppo presto abbandonai per poter evitare la blasfemia della mitologia. Parma è rimasta nel mio immaginario una soffusa e circonfusa atmosfera di mistero. Era la città che cacciò la mia famiglia, perché centro bigotto e borghese, perché incapace di capire che il mondo girava: né a destra né a sinistra, ma nella profondità della bellezza.
Parma era l’utero che m’aveva custodito per tre anni, ma che serbavo nella memoria non come un’immagine– tantomeno come una galleria d’immagini –, ma come un’indefettibile assenza, una mancanza di senso, una nostalgia senza lacrime. Parma era un’incrociarsi di viuzze e borghi e slarghi vaghi, avvolti nella nebbia, ammirati attraverso un obiettivo appannato, una finestra battuta dalla pioggia. Era una torre (l’atelier di mio padre); una chiesa (la Steccata di mia nonna); un parco (quello Ducale, di mio nonno); un Antelami oscuro (il Battistero di mio zio); un palazzo (la Pilotta, che nome evocativo, di mia zia); la città matrigna (di mia madre). Non era la mia città, non poteva esserlo e non lo sarebbe mai diventata.
Cinquant’anni più tardi trovo due ore, non di più, per flaner, per girovagare per farini felino garibaldi pace duomo ducale. Due ore per cercare una qualche riconciliazione. No. Qualche filo squarcio soffio. Colgo solo un’atmosfera immobile, cuori liquidi, barlumi di grandeur, ferite nelle pareti. Che riconosco:  l’utero che mi ha custodito, il liquido amniotico che m’ha nutrito, la dimora che m’ha reso atto alla vita in società.
Inseguo per qualche tempo le immagini più parmigiane che si possano trovare in giro: le opere di Antonio Allegri e Francesco Mazzola, il Correggio e il Parmigianino. Una fugace visita alla Diana – Giovanna da Piacenza nel monastero benedettino di San Paolo –, una volta graziosa e birichina, un gioco di muta sensualità, prima di avventurarmi sotto la mole imponente della Pilotta, un po’ trascurata, un po’ altera come un colosso ormai anziano che gonfia il petto e s’atteggia a uno sguardo truce. Salgo le scalinate scure e imponenti del palazzo, spazi che incutono un certo timore ma non abbastanza per impaurire. I passi risuonano amplificati in misura sproporzionata ai locali che attraverso, quasi moltiplicati, esagerati da una qualche immensa cassa toracica. Eccolo, il teatro Farnese, ligneo capolavoro d’ebanistica e di acustica, d’architettura e d’ingegneria. Salgo gli stretti spazi riservati al pubblico, gradini dove accomodarsi è scomodo, ma la visione è perfetta sulla scena di legno e mattone.
Una larga e ampia introduzione alle meraviglie del Correggio, alle sue mezzelune della Annunciazione e dell’Incoronazione della Vergine, e poi ai dipinti della Madonna della scodella e della Madonna col bambino e i Santi Girolamo e Maddalena, nei quali ritrovo arie familiari, ricordi d’infanzia ancora presentissimi: due incisioni a casa nostra li riproducevano, con quella Madonnina piccola e dolce, vicina, sorella e amica, e non solo madre. E poi lo straordinario spazio spirituale ed estetico aperto dalla Schiava turca del Parmigianino, diversissima ma così simile: occhi che mi amano e mi elevano nello spazio dell’amore carnale che diventa spirituale.
L’emozione latita, i sentimenti tacciono. Parma non è mia, ma io sono in qualche modo di questa città, le appartengo per diritto divino, per predestinazione. Me lo conferma una strana sensazione – l’unica – che mi spalma l’anima di balsamo: una nascente nostalgia per quello che questa città avrebbe potuto darmi ma non mi ha mai dato. Una nostalgia per un futuribile. Un aborto culturale, un’incertezza anagrafica. Una vecchia signora avvolta in uno strascico di violetta che muore in un alito di lambrusco, in un conato di ricchezza. Cioè Parma quest’oggi. Nascente nostalgia subito morente.
Salgo i gradini – sproporzionati? – che chiudono come un muro le navate del Duomo. Rossi. Rosa. Gialli. Alle spalle le volte affrescate di romanico e di barocco, e le cappelle di stucchevole ricchezza cromatica. Dinanzi altre volte, altre cupole più lontane, meno accessibili. L’ultimo scalino, una luce breve. La crocifissione dell’Antelami. Pietra nuda amata. Capisco la nascita e la morte. Capisco la nostalgia. Parma s’accende di note.

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