Oman profondo, nel Paese più pacifico della penisola arabica. La polvere, il vento, il silenzio.
È considerata
una delle città più antiche dell’Oman, al-Hamra, ma in fondo poco si sa della
sua vicenda. Così scrivono i libri di storia: «Situato ai piedi dei monti
Hajar, nella regione di al-Dakhiliyan, è senza dubbio uno dei centri abitati
più antichi del Paese, almeno sette secoli qui si respirano. Il centro abitato
è costruito in case di mattoni crudi, simili nello stile a quelle yemenite».
Nemmeno su Internet si ricava molto di più.
Poco importa –
o meglio, importa assai, ma sullo sfondo della mia piccola vicenda –, perché la
storia ad al-Hamra la si vede e la si tocca, non solo la si legge. In
esperienze inattese che riempiono il cuore, la mente, le mani, gli occhi, le
orecchie e persino l’olfatto e le papille gustative.
Il cuore. Le
rovine di una città qui ad al-Hamra sono anche le rovine in una città. Poco
alla volta il vecchio abitato viene ripreso dalla madre terra, abbandonato
dagli abitanti forse stanchi di dover curare giorno dopo giorno costruzioni
affascinanti e ardite nelle loro forme e nelle loro altezze, ma fragili e
precarie. Incantevoli. Chiamano al-Hamra la piccola Sana’a. Strazia il cuore
vedere queste case, anzi questi palazzi cadere al suolo… in polvere, osservare
i soffitti crollati che espongono senza pudore le canne che sostenevano il
sonno e il lavoro di tanta gente, anche l’amore familiare, quello di coppia.
Strappa l’anima osservare le nicchie sospese nel vuoto ancora occupate da
quotidiane suppellettili imbalsamate da una crosta di polvere.
La mente.
Passeggiando nella cittadina, a quest’ora deserta, salendo scale precarie che
paiono di cartapesta appoggiandovi sopra il piede e pregando che reggano,
osservando le spine crescere sulla terra ammucchiata che una volta era un muro,
non si può non pensare all’hebel, al
soffio, al vapore, alla vanità della nuova ricchezza che nasce già vecchia già
obsoleta già morta. Memento homo,
anche varcando una soglia erosa dal tempo e calpestando la porta divelta la
nevrosi dei moderni si pacifica. Grazie alle case che si sfaldano che si sgretolano
che implodono.
Le mani. Viene
continuamente l’imperativo desiderio di poggiare le mani sulle pareti delle
case di al-Hamra. Sulle mensole di mattoni, sulle suppellettili sopravvissute
alla distruzione, sui muri che paiono a ogni momento della progressiva elisione
nella terra chiedere di essere toccati, confortati, quasi accarezzati. E poco
importa che sulle mani resti solo polvere rossastra, fine, che s’infiltra sotto
le unghie perdendovi pervicace dimora. Le mani partecipano così alle scoperte
del cuore e della mente.
Gli occhi, ah
gli occhi! È un festival di emozioni estetiche quello che provo perdendomi
nelle viuzze deserte del quartiere vecchio della città, temendo per la
stabilità di muri che paiono tutto salvo che perpendicolari al suolo, che peraltro
piatto non lo è mai. Ogni angolo apre nuove prospettive, nuove rovine e nuove
aperture, un mondo in perpetuo mutamento, panta
rei. Le forze della natura paiono sempre perdere la loro battaglia con le
forze umane, ma alla fine è sempre la natura che riporta la vittoria, prima o
poi. Dolcemente o brutalmente.
Le orecchie:
anche loro hanno la loro parte ad al-Hamra, anche se sembra che di rumori ce ne
siano ben pochi. Ma deambulando si riescono a cogliere non solo quelli
accidentali ma anche il suono lontano del muezzin che scivola nelle strette vie
dell’abitato, perde la sua potenza per acquistare la dolcezza del sussurro
divino. Ma un’altra musica s’ode ad al-Hamra, non lo si crederà ma è così:
fermatomi su una soglia a far silenzio, ecco che poco alla volta inizio a udire
le note polifoniche di uno strano concerto senza strumenti, in lievissimo e
pianissimo, e null’altro, proveniente da non so dove, forse da nessuna parte.
Poi, accarezzandomi il volto arso dal sole, avverto qualche granello di polvere
appiccicatosi al sudore. La musica che odo è quella dell’infinita polvere che
scivola sui muri, sulle balaustre, sulle nicchie, sui gradini.
Anche di odori
ad al-Hamra ne ho respirati pochi. Qua e là una qualche carne grigliata sparge
i suoi effluvi. Qualche rara pianta – timo? rosmarino? menta? – un po’ di
profumo lo sparge attorno a sé. Ma le essenze respirate non venivano tanto
dalla vita vegetale o animale, quanto da quella minerale. Perché qui in Oman
s’è coltivata da secoli l’arte del profumo. Le pietre profumano, proprio così.
Incensano l’aria.
E infine il
gusto. Finalmente nella città vecchia incontro figure umane non fuggitive, come
fiamme bianche o nere che entrano ed escono dalle abitazioni quasi fossero
fantasmi. Due anziani siedono su un tappeto liso dinanzi alle loro abitazioni.
Non hanno pretese, m’invitano a sedere con loro. Mi offrono un’arancia che sa
d’arancia. E un caffè che sa… no, non sa di caffè, ma di cardamomo, vaniglia,
incenso e ospitalità. L’uomo m’invita poi a visitare la sua casa, a salire
sulla terrazza. Da solo, lui è vecchio, e richiama la sua donna perché si
chiuda nella sua stanza e non si mostri all’estraneo. Salgo gradini levigati,
accarezzati, strofinati d’attenzione femminile. Quasi mi vergogno d’entrare
nell’intimità, nello scoprire che i vestiti non sono impilati negli armadi ma
appesi a chiodi di legno. I luoghi dell’igiene non hanno confort alcuno, ma
sono puliti. I letti sono intagliati. E i merli del terrazzo sono arrotondati.
E la vista dall’alto è d’incanto e di apertura, sulla città per metà svuotata.
E le palme del wadi paiono spiriti leggeri.
E la cresta delle montagne, vicine o lontane, sono solo corone.
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