mercoledì 29 agosto 2012

Jakarta, il caos e l’ordine


La capitale indonesiana non è una città facile: ha anche le sue bellezze, in parte ereditate dai coloni olandesi. La grandezza della città sta tuttavia nella natura conciliante della sua gente.

Non è una città in cui spontaneamente viene la voglia di viverci. 20 milioni di persone concentrate in una metropoli convulsa non costituiscono quella che si potrebbe definire una prospettiva allettante. A più riprese mi tocca assaggiare il traffic jam, la marmellata del traffico, anche se sostanzialmente la mia visita si svolge in un fine settimana. Improvvisamente ci si ferma e non si riparte che 5, 10, 20 minuti più tardi, senza peraltro capire il perché di quella sosta, magari dovuta semplicemente a due o tre tassì che tardano a lasciare i propri clienti, o un minimo incidente, o ancora un semaforo rotto. Agli incroci, prima della ripartenza al verde, si formano nugoli di motorette scoppiettanti che poco alla volta, centimetro dopo centimetro, guadagnano terreno, invadendo pericolosamente la sede stradale e talvolta addirittura anticipando il semaforo, sciamando in tutte le direzioni. D’altronde lo stesso tracciato delle strade non sembra essere proprio razionale: l’ex aeroporto, ad esempio, è stato chiuso e trasformato in un’enorme quartiere residenziale e commerciale. Nella pista-strada a sei corsi per direzione si sfreccia per qualche chilometro, per poi frenare bruscamente al termine del “rullaggio” per l’inevitabile ingorgo provocato dalle sei corsie che diventano tre e poi una sola.
La città ha origini lontane, e ha conosciuto una forte colonizzazione olandese: porto fiorente della dinastia locale indù Pajajaran, nel 1522 divenne colonia portoghese, prima che il santo musulmano Sunan Gunungjati cinque anni più tardi li cacciasse (il nome della città, “città vittoriosa”, risale a quel periodo). Solo all’inizio del XVII secolo arrivarono gli olandesi che, dopo acerrime lotte con i britannici, presero stabile possesso del luogo nel 1619, ribattezzando la città Batavia. Un dominio che durò fino al 1942, con l’occupazione giapponese, e che poi portò la città a diventare capitale dell’Indonesia libera, nel 1950. Forse anche per questa lunga dominazione olandese è costruita lungo una serie di canali che servono a regolare il deflusso delle acque nella stagione delle piogge, sapendo che comunque, ogni tre o quattro anni, la città viene invasa per il 70-80 per cento della sua superficie : finora nessuna opera idraulica è riuscita a risolvere il problema.
Anche qui a Jakarta i mall, cioè i centri commerciali sconfinati, stanno cambiando il panorama urbano. Ne visito solo uno, chiamato Manga Dua, che impressiona per le sue sconfinate dimensioni, ma che mi pare manifestare una delle note caratteristiche di questo popolo: lungo le scale mobili del centro c’è posto per chiunque, per i ricchi e per i meno ricchi. In un Paese che non è ancora al top dell’esplosione neo-liberista asiatica e mondiale, ma che comunque può contare su una crescita dell’economia del 6,8 per cento, questi centri commerciali sono uno spaccato di una rivoluzione più soft che altrove.
Ma la gente di Jakarta appare gentile, ovunque o quasi. La lingua ha un incedere quasi sincopato: una delle spiegazioni è che il plurale non esiste come forma autonoma, per cui la soluzione escogitata dai linguisti nei secoli è stata quella di ripetere semplicemente due volte il singolare! La parlata è quindi simpatica e leggermente comica, quasi balbettante. Così come appare insolita la conformazione del vecchio centro della città, la vecchia Kota, che alterna costruzioni in stile coloniale olandese ad altre in uno stile più locale e ad altre ancora più moderne, in una precarietà dell’insieme che lascia perplessi: ci sono sacche di povertà spaventose accanto a esplosioni di ricchezza, direi addirittura di opulenza.
Ne ho una prova visitando il porto e i suoi immediati dintorni. Accanto a belli ed eleganti pescherecci di legno di ragguardevoli dimensioni, la miseria più cruda fa capolino con la gente che vive negli interstizi dello scalo. Mentre più tardi, accanto allo stesso porto, s’allunga accanto alla spiaggia un quartiere residenziale di ville spaventosamente lussuose: marmi di Carrara e vetri fumé, cemento ardito e giardini lussureggianti, in cui il kitsch più stupido fiancheggia la migliore architettura contemporanea. Poi una highway e quindi, quasi senza soluzione di continuità, ecco lo slum più esteso di Jakarta, forse mezzo milione di persone, in condizioni igieniche che dire precarie è eufemistico, elettricità mancante o rubata, ma con le antenne satellitari bene in mostra, mentre nessuno sembra far economia d’un cellulare. Poi, di nuovo, la ricchezza sfacciata di un enorme campo da golf su cui corrono le macchinette bianche dei ricconi, inseguite da decine di portaborse vestiti di bianco che molto probabilmente vengono proprio dallo slum attiguo. Terribili contraddizioni che si fa fatica ad accettare: come il viadotto che collega la zona residenziale al campo da golf, sopraelevato rispetto allo slum che sembra voler ignorare, più che disdegnare.
La città di Jakarta è quindi un intricatissimo dedalo di enormi viadotti e svincoli, stradine tortuose, canali puzzolenti, mercati e mercatoni che sorgono un po’ ovunque senza apparente logica, frotte di Apecar che fungono da mini-tassì (qui li chiamano badjaj, mentre in Thailandia li chiamano tuk-tuk), piccole e medie moschee dalle orride cupole di metallo i cui muezzin fanno a gara nel salmodiare più forte dando vita a un concerto che solo a tratti diventa una polifonia involontaria, altrimenti aggiungendo del caos fonico al caos viario, università laiche e altre religiose…
Ma mi piace concludere questa breve descrizione di Jakarta percorrendo i corridoi che sanno di vecchiume del Museo Wayang, il museo della marionetta, che sembra in qualche modo sintetizzare le tradizioni coloniali e quelle indigene. Una serie di bacheche scarsamente illuminate e fornite di etichette solo in lingua indonesiana, per la disperazione dei turisti stranieri, ospitano una collezione articolata e stupenda di marionette sia locali che europee; quelle locali (purwa) sono una sorta di ricamatissime pelli di bufalo trattate e forate in modo da dar vita a incredibili spettacoli di ombre cinesi. Forse qui si può capire quel qualcosa di positivo che certo colonialismo ha portato: l’incontro e non lo scontro tra le civiltà. E allora anche Jakarta, almeno per qualche istante, m’appare un luogo degno d’essere visitato, se non addirittura vissuto.

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