giovedì 30 aprile 2015

Swayambunath, la scalinata orientale



Mentre già si parla meno di Nepal e delle vittime del terremoto, continuo a ripubblicare i reportage del mio viaggio in quel Paese di un anno fa. Questa volta ecco un tempio (parzialmente danneggiato dal recente sisma) cui si accede attraverso una ripidissima ascesa percorsa da scimmiette golose

Raramente mi è capitato di vivere un’esperienza di acsesa al sacro come quella che oggi mi trovo a sperimentare. Il tempio di Swayambunath, nei sobborghi di Kathmandu, è noto per le scimmie che, numerosissime, trovano il modo di infilarsi ovunque, talvolta in modo assai violento, negli affari altrui, specie se scorgono del cibo nelle mani dei visitatori. Ma questo luogo resterà nella mia memoria per la straordinaria scalinata orientale che sale allo stupa più noto dell’intero Nepal. Una scalinata che, via via che si sale, si verticalizza, al punto da doversi reggere al corrimano metallico che benevolmente i monaci hanno montato in soccorso degli ascendenti. La storia del luogo è nota: il “tempio delle scimmie” domina la città. La leggenda narra che un grande lago occupava la valle, da cui emerse la collina sulla quale oggi si erge maestoso lo stupa. Il posto sembra fosse luogo di culto sin dal IV secolo prima di Cristo, e in ogni caso l’imperatore Ashoka lo visitò 2 mila anni fa. Come è pure nota la qualità artistica degli edifici che si dispongono attorno allo stupa, in un affastellamento di epoche e stile assai sconvolgente.


L’ascesa, lo confesso, m’è assai faticosa. Sono appena arrivato dall’Europa, il fuso orario non facilita le cose, siamo in altitudine e poi l’incredibile diversità della città mi ha sconvolto, seppur discretamente. Tocca segmentare l’ascesa, 20, 10, 5 gradini in serie sempre più corte, e infine l’ampia piattaforma del tempio viene raggiunta come una benedizione, come una liberazione. Ma non come una meta, solo come una tappa: si entra infatti nel gioco dell’umana, impossibile felicità che nei fatti diventa “cammino-camminato”. L’ascendere diventa in qualche modo una meta. Ad ogni gradino si ringrazia, si riprende fiato e si riparte. Verso il gradino seguente.


Sulla piattaforma di Swayambunath, una vera e propria terrazza sull’abitato arruffato e a tratti inquietante di Kathmandu, la gente alterna preghiere e operazioni ludiche, manducato rie e commerciali. Mi diverto ad osservare tre monaci tibetani che posano per la foto di rito con una bellezza giapponese in short da brivido, così come una frotta di ragazzini che scalano una statua del Buddha, mentre un branco di turisti statunitensi s’informa su come comprare alcune statue…. C’è varia umanità, a Swayambunath, c’è il dolore e c’è la riconoscenza; credo che l’ascesa sia quel che livella ogni uomo e ogni donna, di tutte le età.

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