martedì 15 luglio 2014

Drukgyel Dzong, dove è cominciata la storia del Bhutan



Viaggio in Nepal e Bhutan/11 - Un'altra fortificazione militare e votiva nel Paese più felice del mondo. Questa volta in rovina. Scavando nei secoli

Nel 1644 i bhutanesi riuscirono a liberarsi dagli invasori tibetani, finalmente! L’unità del Paese era possibile. Per commemorare l’evento, il Zhabdrung Ngawang Nangyal, cioè il lama leader spirituale e politico più influente, decise di far costruire, proprio sulla via del Tibet dalla cui occupazione ci si liberava, uno dzong, tempio e fortificazione assieme, che testimoniasse la vittoria (gyel) del Bhutan (Druk). Scelse la via che porta al Tremo La, il passo che dà sul Tibet, e poi al massiccio Jumolhari. Ma la costruzione non aveva solo finalità commemorative: qui in effetti si riuscì a rintuzzare l’attacco che gli indemoniati tibetani sferrarono contro i bhutanesi sperando di ottenere una decisiva penetrazione nel terreno perso. Lo stratagemma di costruire una falsa entrata allo dzong, che s’apriva su un vasto cortile chiuso, permise di intrappolare gran parte degli assalitori, tra cui il loro capo, e di decimarli, mettendo gli assalitori sopravvissuti in fuga.
Più forte dei tibetani, però, è stato il fuoco, che nel 1951 ha distrutto lo dzong. Finora non sono stati trovati i fondi necessari per restaurarlo e così la fortificazione giace come una memoria della caducità degli uomini e del loro presunto potere. Attorno allo dzong è cresciuto un modestissimo abitato, per giunta assai disordinato, che vive del trekking: qui la strada più o meno carrozzabile finisce, poi fino al confine col Tibet, e molto più in là, c’è solo montagna. Un bel sentiero lastricato conduce a quel che resta dello dzong, le cui mura, abbarbicate sulla roccia viva a picco sul cammino, fanno forse più impressione nello stato attuale che se fossero nello stato originario. Pare che una enorme massa nera incomba sulla valle. L’ingresso, quello vero, non quello fittizio, è un budello a scalinata che eleva fino alla spianata dinanzi all’utse (torre) e poi al lhakhang (tempio). Si vedono ancora le travi bruciate infisse ai muri che, senza più l’intonacatura bianca, appaiono quello che sono, cioè terra pressata e seccata secondo il tradizionale metodo locale. Solo le mura perimetrali e quelle degli edifici più elevati sono in pietra.
M’aggiro tra le rovine in cerca di qualcosa, non so nemmeno io cosa, però. E mi par di trovare, più che nello splendore dei templi tutti d’oro, la natura più vera del buddhismo, quello che cerca il nulla…

Nessun commento: