giovedì 25 settembre 2014

Alma Arasan, le Alpi sul Tien Shan

Viaggio in Kazakistan/2 - Nelle montagne a sud di Almaty, una valle che par d'essere nelle Dolomiti...

Almaty è una città particolare perché vive della corona di montagne che l’abbracciano a Sud. Oggi la mia amica modista, assieme al suo compagno, vuole portarmi per un picnic in una delle valli più belle della regione, che sin dal nome promette momenti elevati: Alma Arasan. Pochi tornanti, qui le strade tirano dritto qualsiasi sia la pendenza, poco importa. Che non sono mai eccessive, fino all’inizio delle valli che penetrano in quella massiccia e nevosa catena che è il Tien Shan. A un tiro di schioppo c’è Biskek, la capitale del Kirghizistan. 

La strada finisce con un’ampia curva che prosegue verso il Big Almaty Lake, purtroppo chiusa per i ripetuti incendi che colpiscono la regione: in cielo passano di continuo gli elicotteri antincendio. Un villaggetto di yurte – bar, ristoranti, botteghe d’artigianato – segna l’inizio della valle, un torrente ricco d’acqua e un paesaggio alpino. Sì, pare proprio di trovarsi in piene Alpi, la vegetazione è simile anche se da queste parti si frammettono al paesaggio botanico a noi noto una gran quantità di betulle che conferiscono all’insieme un che di russo o siberiano che non stona per nulla. Anzi, altrimenti mi chiederei perché io sia venuto fin qui! I miei amici imbandiscono un picnic gustoso e ricco di spezie locali su un’isoletta al centro del torrente dalle acque chiare che attraversiamo a piedi nudi, assaporando un’acqua fresca e trasparente. La convivialità semplice e concreta di queste parti lascia lo spazio a una dolce pennichella cullata dalle note monotone ma musicali del torrente.
 

Dopo pranzo, per sgranchirmi le gambe, m’avvio lungo un sentiero che costeggia il torrente, seguendone mimeticamente il percorso: non ci sarebbe spazio per altre ipotesi di itinerario, visto che il corso d’acqua ha scavato il suo letto tra pareti quasi a strapiombo. Arrivo a un ponticello metallico arrugginito e mal in arnese, fatto di due tubi di ferro arrugginito e da traversine che non sono altro che tondino da cemento armato sommariamente reciso. Avanzo e ben presto fa la sua apparizione una scaletta di metallo e legno che permette di superare un gran blocco di roccia piovuto da chissà quale cima. Nulla di più precario: ruggine, tremolii, scalini mancanti, scorrimano sganciato dalla base, improvvisi cedimenti dei materiali... Ma si supera l’ostacolo per giungere alla seguente scaletta, al successivo ponticello che paiono una sfida all’equilibrio della forza di gravità, al buon senso e alla sicurezza. E così via, fino a che la valle, o per meglio dire il canyon, viene attraversato a una decina di metri d’altezza da una condotta forzata d’un metro abbondante di diametro, completamente arrugginita.
 

Ma il sentiero a questo punto abbandona il corso del torrente per issarsi sul pendio orientale, sempre nella più assoluta precarietà, per giungere, superato un centinaio di metri di dislivello, a una strana costruzione in rovina, una sorta di gazebo in muratura, un’edicola, un portichetto che ancora conserva le tracce di patine di pittura argentea o dorata, chissà com’era pacchiano quand’era curato e frequentato. Ma la vista da quassù è straordinaria, verso il verde passo che porta a un altro passo e così via fino al Kirghizistan. Le montagne innevate a Levante e a Ponente fanno il resto. La discesa? Lasciamo perdere. La consueta meditazione centrasiatica sul tracollo delle ideologie collettiviste e l’eredità di incuria e pressapochismo che le popolazioni locali non riescono a debellare.

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