martedì 9 febbraio 2016

Pantokratoros, ascesi e fraternità

Viaggio al Monte Athos/3









 
 





Uno dei venti monasteri "ufficiali" dello "Stato dei monaci", quello nel quale prendo alloggio...
 
Quando si visita lo "Stato dei monaci" del Monte Athos, si riceve una sorta di visto, il diamonitirion, sul quale deve essere indicato il monastero nel quale si verrà ospitati. A me è toccato il Pantokratoros, non per scelta ma perché il mio amico Nikos ha pensato bene così, visto che c'è qui un monaco che parla l'italiano, Theophilos si chiama. Così, sbarcando al porticciolo di Dafni ancora quasi totalmente inconsapevole di quello che mi succederà, salgo su un autobus e mi ritrovo nella "capitale" di Kayres, e poi sul furgoncino guidato da un giovane monaco di Eraklion che mi guida lungo strade in terra battuta non poco malmesse. Si scende verso la costa orientale della penisola, forse la meno frequentata ma quella che ospita i monasteri più antichi. 

Dopo qualche decina di curve, ecco che guardando verso il mare si scorge uno scorcio strano, una sorta di castello, una torre massiccia, una costruzione che pare imprendibile. Dovrò abituarmici, qui al Monte Athos i monasteri sono così.
Avvicinandomi mi rendo conto che attorno all'edificio principale, il monastero vero e proprio, una costruzione rettangolare che “contiene” al suo interno un cortile in mezzo al quale è costruita la chiesa principale, il katholikon − scoprirò che il monastero ospita una decina di cappelle −, ci sono decine di altri edifici che poco alla volta m'accorgo essere segherie, garage e laboratori, fienili, lavatoi, essicatoi, forni... Insomma, tutto quanto serve per il lavoro dei monaci. Che sembrano assai indaffarati.
 

Arrivato a destinazione, accolto con non poca simpatia dai monaci − sono in tutto una trentina −, occupata la mia austera ma pulitissima cella, mi do subito alla scoperta dei luoghi. Nel cortile fervono i lavori di restauro, manca solo l'ala che dà verso il mare. Le parti già risistemate paiono un piccolo capolavoro di muratura e carpenteria. La chiesa rossa e bianca domina l'intero spazio ma, essendo un po' sollevata rispetto al resto del cortile, pare non volerne sapere di guardare in basso, lasciando ai mortali una certa dose di libertà di movimento. A ridosso della chiesa, verso Nord, c'è il monastero vero e proprio, un edificio che appare più massiccio del resto, perché non è fornito di quegli archi su due livelli che slanciano le strutture e proteggono i deambulatori e le eleganti scale di legno per salire al piano.
 

Esco per il camminamento ad arco che dà verso Ponente, inquadrando un altro monastero, lo Skiti Ilias. Perlustro i dintorni del Pantokratoros, dapprima scendendo alla spiaggia di ciottoli 80 metri al di sotto − peccato, qui al Monte Athos è assolutamente vietato bagnarsi! −, poi percorrendo il perimetro del monastero, interrotto solamente nella parte più a Levante. Così debbo andare e tornare, il che mi fa scoprire ancor più chiaramente il perché questi fortalizi in realtà abbiano un loro elegante fascino. La ragione sta nelle sporgenze dell'ultimo livello delle costruzioni, sorrette da puntelli obliqui modanati in modo appena percettibile, il che conferisce all'intero, massiccio edificio uno slancio assolutamente inusitato.
 

Rientro, è l'ora della preghiera delle tre del pomeriggio. E allora comincia una storia di ascesi e fraternità, di cui m'accorgo che l'edificio è l'esemplificazione, il simbolo: la fortezza e la severità dell'ascesi; l'eleganza e la schiettezza della fraternità.

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