SONO STATO A ISCHIA, ad un’ora di aliscafo da Napoli. I primi caldi della stagione e l’aria ancora tersa hanno reso la visita piacevole e non poco interessante. Ero stato invitato a tenere una conferenza pubblica in una delle parrocchie più vivaci dell’isola, quella di Sant’Antuono (Sant’Antonio abate, ma non scrivetelo secondo la tradizione!). L’indomani sono stato invitato a prendere parte alla messa domenicale celebrata nella chiesa parrocchiale e ritrasmessa in diretta su Retequattro.
ACCOMODATO NELLE PRIME FILE, ho potuto osservare attentamente lo svolgersi delle operazioni. C’era il parroco, don Carlo Candido, che officiava con la consueta semplicità, e che nell’omelia ha presentato una versione riveduta e corretta della più classica invocazione allo Spirito Santo, adattata ai temi e ai linguaggi della gente normale. C’era il bel coro di giovani, giovanissimi e adulti che associava bellezze mediterranee nel fiore degli anni ad attempate matrone dallo sguardo furbo e mite. Non mancavano i chierichetti, tutti compiti nel loro servizio, doppiamente preoccupati (o piuttosto occupati) per il solito, consueto susseguirsi dei riti liturgici e per l’insolito incatenarsi di riti televisivi (sempre di riti si tratta). A fare da contraltare al sacerdote, c’era il responsabile del palco (della scena o dell’altare televisivi), che impartiva ordini ai musicisti e dettava i tempi della trasmissione al celebrante e ai chierichetti. E c’erano i fedeli, certamente consapevoli del fatto che un milione e passa di telespettatori li avrebbero osservati pregare.
EPPURE C’ERA QUALCOSA DI DIVERSO. Nei normali set televisivi, infatti, si rappresenta qualcosa, sempre più nella logica della fiction, qualcosa d’inventato o una rappresentazione fittizia d’un fatto realmente accaduto. Tutt’al più si discetta su tutto e sul contrario di tutto, sostanzialmente allontanando la realtà, sostituita dalla virtualità sempre più spinta. Nella parrocchia di Sant’Antuono, invece, quel che si vedeva era sì una rappresentazione (televisiva) di una rappresentazione (liturgica), ma i protagonisti non fingevano, perché quella messa era solo un punto di arrivo di una vita comunitaria reale. Era la conclusione di un percorso settimanale fatto di condivisione, di preghiera, di solidarietà, di gioie e dolori.
SÌ, CERTO, LE LUCI AVEVANO UN LORO IMPATTO sull’uditorio, e le telecamere a pochi centimetri dai fedeli inginocchiati influenzavano certamente la preghiera. Ma senza luci e telecamere quella messa avrebbe avuto luogo lo stesso, magari un po’ più lunga, magari con gli elementi del coro vestiti in modo più fantasioso, magari senza i politici locali azzimati… Ma la realtà della comunità non sarebbe minimamente cambiata. Quella messa era un vero reality, immensamente più reale rispetto ai grandi fratelli, alle fattorie, alle isole dei famosi, alle talpe…
ACCOMODATO NELLE PRIME FILE, ho potuto osservare attentamente lo svolgersi delle operazioni. C’era il parroco, don Carlo Candido, che officiava con la consueta semplicità, e che nell’omelia ha presentato una versione riveduta e corretta della più classica invocazione allo Spirito Santo, adattata ai temi e ai linguaggi della gente normale. C’era il bel coro di giovani, giovanissimi e adulti che associava bellezze mediterranee nel fiore degli anni ad attempate matrone dallo sguardo furbo e mite. Non mancavano i chierichetti, tutti compiti nel loro servizio, doppiamente preoccupati (o piuttosto occupati) per il solito, consueto susseguirsi dei riti liturgici e per l’insolito incatenarsi di riti televisivi (sempre di riti si tratta). A fare da contraltare al sacerdote, c’era il responsabile del palco (della scena o dell’altare televisivi), che impartiva ordini ai musicisti e dettava i tempi della trasmissione al celebrante e ai chierichetti. E c’erano i fedeli, certamente consapevoli del fatto che un milione e passa di telespettatori li avrebbero osservati pregare.
EPPURE C’ERA QUALCOSA DI DIVERSO. Nei normali set televisivi, infatti, si rappresenta qualcosa, sempre più nella logica della fiction, qualcosa d’inventato o una rappresentazione fittizia d’un fatto realmente accaduto. Tutt’al più si discetta su tutto e sul contrario di tutto, sostanzialmente allontanando la realtà, sostituita dalla virtualità sempre più spinta. Nella parrocchia di Sant’Antuono, invece, quel che si vedeva era sì una rappresentazione (televisiva) di una rappresentazione (liturgica), ma i protagonisti non fingevano, perché quella messa era solo un punto di arrivo di una vita comunitaria reale. Era la conclusione di un percorso settimanale fatto di condivisione, di preghiera, di solidarietà, di gioie e dolori.
SÌ, CERTO, LE LUCI AVEVANO UN LORO IMPATTO sull’uditorio, e le telecamere a pochi centimetri dai fedeli inginocchiati influenzavano certamente la preghiera. Ma senza luci e telecamere quella messa avrebbe avuto luogo lo stesso, magari un po’ più lunga, magari con gli elementi del coro vestiti in modo più fantasioso, magari senza i politici locali azzimati… Ma la realtà della comunità non sarebbe minimamente cambiata. Quella messa era un vero reality, immensamente più reale rispetto ai grandi fratelli, alle fattorie, alle isole dei famosi, alle talpe…
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