martedì 15 giugno 2010

Valle di Fergana, dove la terra diventa seta


Per sfuggire ai disordini interetnici, 100 mila cittadini del Kirghizistan di nazionalità uzbeca hanno varcato la frontiera di Osh per fuggire in Uzbekistan. Reportage sulla valle, estate 2009.

Andijan, cittadina di 350 mila abitanti. Nulla di speciale, salvo una sana agricoltura e qualche commercio. Volevo visitare Andijan per un motivo in fondo molto particolare: vedere la piazza Babur, dove il 13 maggio 2005 l’esercito uzbeco provocò una strage, con centinaia di morti, di cui all’estero s’è saputo poco o nulla per via del regime di controllo sull’informazione attuato dal governo di Kadirov, che blocca nella pratica ogni notizia scomoda. Si dice che all’origine della strage ci fosse un episodio secondario – la richiesta di riforme economiche –, ma che a far saltare i nervi alle autorità sia stato il timore di infiltrazioni fondamentaliste islamiche nella regione, provenienti dal Pakistan, dall’Afghanistan e dal Tagikistan. Effettivamente qui nella Valle di Fergana si notano molte più moschee che altrove e le donne velate abbondano – fa la sua comparsa persino qualche burqa –, e anche numerosi posti di blocco, alcuni assai “muscolosi”, molto più ravvicinati che nel resto del Paese. Nell’aria si respira più tensione di quanta ce ne sia a Tashkent o in qualsiasi altra regione uzbeca, persino nella città-porta all’Afghanistan, Tabriz. In realtà il mio autista di turno – scelto alla frontiera col Kirghizistan da cui provengo – fa di tutto per non condurmi alla piazza Babur, chissà, forse vietata alla sosta. Non riesco proprio a farlo recedere dal suo rifiuto.

Inizia così una giornata un po’ folle nella Valle di Fergana, proboscide dell’Uzbekistan mutilata di ampie parti rimaste incollate al Kirghizistan, propaggine geografica ideata dello stalinismo all’apice della paranoia del divide et impera. Sicuramente la valle è la regione più fertile di tutto l’Uzbekistan, ben irrigata e coltivata, ormai quasi affrancata dalla monocultura del cotone che il sovietismo dei piani pluriennali aveva destinato alla regione, distruggendone l’immenso potenziale idrico e agricolo. I danni sono stati altrove irreparabili – vedi la quasi scomparsa del Mare d’Aral –, ma la solerzia e l’ingegnosità degli abitanti della valle qui ha certamente fatto tanto per restaurare l’antico prestigio agricolo della regione. Ammiro i campi di granturco e girasole e grano, i frutteti di mele e pesche e albicocche, i lunghi filari di pioppi piantati a un metro l’uno dall’altro e quelli di gelso così bitorzoluti da essere impossibili da allineare; e i canali scavati con le mani e le braccia dalla gente del luogo per irrigare a dovere i campi con l’acqua che in fondo giunge qui ancora abbondante dalle montagne del Kirghizistan e del Tagikistan…
Un capitolo a parte meriterebbero le viti, che spuntano ovunque nella Valle di Fergana, rigogliose e cariche di grappoli opulenti di chicchi e grassi d’acqua. Gli abitanti hanno preso l’abitudine di farla crescere amorevolmente non solo dietro casa, nell’orto di famiglia, ma anche davanti alle abitazioni, cosicché se nelle cittadine e nei paesi della valle non esistono portici, si allungano però freschi e verdi pergolati, gradevolissimi: passeggiare nell’assolato pomeriggio estivo fa in qualche modo credere che il torrido sole estivo possa non dico essere sconfitto, ma almeno domato.

Fergana curiosamente sembra dare il nome alla valle intera – una valle per modo di dire: come la Valle Padana è compresa tra Appennini e Alpi, così questa piana è compresa tra la catena montuosa dello Tian Shan e i monti Alay –, perché in fondo è la città più recente tra quelle di un certo rilievo della zona. È in realtà la valle che ha dato il nome alla città, costruita dai russi nel 1877 come Novy Margilan, fu poi battezzata Fergana dai sovietici, negli anni Venti. Non c’è nulla di antico da queste parti, ma si respira un’aria decisamente solerte, lavorativa. Non per niente dicono che questa sia la città più giovane dell’intero Uzbekistan (e forse anche dell’Asia centrale), con due grandi università, centri di ricerca e qualche industria.

Anche Margilan ha poco da offrire. È tuttavia nota per avere un buon bazar di verdura e frutta, quelle coltivate nella valle benedetta: sotto la vastissima tettoia del mercato si può incontrare la bontà della gente uzbeca, ma soprattutto quella delle donne, vere colonne portanti del Paese, mogli fedeli, madri premurose, lavoratrici instancabili, capaci di restare per una giornata intera dietro un banchetto di pane o di angurie e poi raggranellare, se va bene, 10 mila som, sei euro scarsi. Ma Margilan è pure il centro della produzione della seta nella Valle di Fergana. Numerose sono le fabbriche preposte alla sua lavorazione. La più antica e importante è la Yodgorlik. Vi capito a mezzogiorno quando lavoratrici e lavoratori stanno pranzando. Ma con estrema cortesia, e sempre col sorriso sulle labbra, accettano di mostrarmi le varie fasi della lavorazione della seta, dall’estrazione della larva alle successive purificazioni del bozzolo, dalla filatura vera e propria alla tintura, sino alla tessitura di tappeti e tessuti, a mano o a macchina (apparecchiature antidiluviane, comunque). Visita didascalica, senza voler entrare nel merito dei diritti dei lavoratori e della tutela della loro salute…

A Rishtan non desidero proprio fermarmi, ma il mio autista vuole a tutti i costi farmi visitare un laboratorio di ceramica. Nulla da fare, il sig. Ahmed è testardo come un mulo. Allora avanzo la scusa di una sorella ceramista (scusa d’altronde vera) per sottrarmi alle noiosissime spiegazioni sulla lavorazione della ceramica. Compro tre coppette per tre euro ed esco nel giro di quattro minuti d’orologio. E così evito anche odiose (per me) conversazioni con un pugno di turisti italiani che stanno facendo il loro solito, pietoso spettacolo da imbecilli.

Quindi non ricorderò Rishtan per le ceramiche, ma per un ristorante. Sì, perché l’autista mi “sfrutta”, visto che il pasto secondo lui è a mio carico, portandomi nel miglior ristorante della città, e uno dei migliori della valle, dove si cuoce un solo cibo, il piatto nazionale, l’osh, altrove chiamato plov. Nel locale ci sono varie sale, per le diverse stagioni e per le varie ore del giorno. La sala nella quale ci fanno accomodare è la più curiosa, a cielo aperto seppur ricoperta da ampie stuoie che al centro lasciano flettersi al vento una dozzina di bellissime betulle. Nella sala sono sistemati una decina di söry, sospesi su una struttura metallica che ricopre un fiumiciattolo: ingegnoso modo di mantenere una certa frescura, complice il vento impetuoso che qui spira quasi ogni giorno. E così i 42 gradi ambientali diventano sopportabili, e le conversazioni fluiscono serene e intrecciate le une alle altre, anche tra sconosciuti. Così al nostro tavolo s’accomoda un coltivatore di uva che, capito che ero italiano, voleva trovare il modo di mettersi in contatto con un produttore piemontese di conservanti per la frutta. Dopo tre quarti d’ora d’attesa, ecco l’osh, straordinario, tenero e croccante nel contempo, dolce e speziato, delizioso al palato se mangiato sorbendo tè verde, amaro ovviamente.

Kokand, infine, città notissima in tutta la regione per essere stata la sede di uno dei khanati più famosi del XVIII e XIX secolo, seconda solo a Bucara per la sua “fama di santità”. Qui finalmente riesco a trovare qualche pietra un po’ più antica. O perlomeno più vecchia di quelle osservate in tutta la Valle di Fergana. Ogni cosa è decadente o in restauro, ma la qualità dei luoghi merita una visita. A iniziare dal cimitero nel quale penso per qualche istante di trovare riposo eterno per l’afa dei 40 e passa gradi e la complessa digestione del piatto di osh. In mezzo alle tombe scovo un paio di piccoli mausolei di antichi khan – quelli di Modari Khan e di Dakhma-i-Shokhon – che sono in restauro, con operai e artigiani al lavoro. Purtroppo, perché non so quanto di quello che osservo sarà mai visibile da altri nei prossimi decenni: qui il restauro è rigorosamente ricostruttivo e non riabilitativo! Chi vedrà più le delicate maioliche verde acqua e azzurro fiume che decoravano il portale del secondo mausoleo? Chi vedrà più le tombe originali della famiglia del Modari Khan nel primo mausoleo?

Faccio poi un salto alla madrasa Narbutabey, un piccolo gioiello. Fino allo scorso anno ottanta ragazzi vi studiavano in condizioni che definire precarie è un eufemismo. Molto armoniose paiono le proporzioni del cortile per l’alloggio e lo studio. E poi la moschea, modesta raccolta intima. E ancora, le maestose moschea e madrasa Juma, abbastanza recenti, del 1818, in totale restauro (aiuto!), anch’esse ricche d’una buona architettura, d’un minareto piccolo e bombato ma gradevole alla vista, di colonne e soffitti di legno colorati e intagliati. Due solerti donnone musulmane mi fanno pagare il diritto di entrata e quello di scattare foto, pochi centesimi, ma mi rilasciano le ricevute in buona e dovuta forma… ancora di epoca societica! Esperienza divertente e forse simbolica dello stato attuale dell’intera vicenda uzbeca, di ritorno tra le braccia dello zar di Russia (ma con prudenza, e senza ricadere nell’abbraccio mortale di Putin e Medvedev). E, per finire, uno sguardo, solo uno, al bel palazzo dell’ultimo khan, Khudoyar, troppo vasto per essere da me visitato quest’oggi. Incute timore e tocca ripartire verso Tashkent.

Nessun commento: