venerdì 25 giugno 2010

Viva la Slovacchia!


Bratislava, ovvero del Danubio a portata di mano. All'indomani della sconfitta della nostra nazionale, omaggio alla capitale slovacca. Visita del 2001.

Ci ero stato nel 1981, in pieno socialismo reale, e poi nel 1991, in piena euforia post-comunista, ancora senza concretezza. Fatico a riconoscerla, ancora a dieci anni di distanza. Qua e là uno scorcio familiare, giro un angolo e riemerge un’immagine già fissata nella memoria: ma allora tutto era grigio e dimesso, le luci erano inesistenti nottetempo, aleggiava un’atmosfera di degrado che incuteva timore e malessere. Oggi il centro della città è armonioso, ricco di sorprese, caffè familiari, locali che propongono buona musica, di tutti i tipi, dall’hard rock a Mozart.
C’è un’atmosfera particolare nella città, che può essere sintetizzata nello stupore che mi coglie ogni volta giro un angolo, e non so cosa mi posso trovare di fronte, non immagino colori e forme degli edifici. Come a Praga, capitale dell’allora Cecoslovacchia; ma anche diversamente dall’attuale capitale ceca, perché qui l’oro è usato con parsimonia, a tutto vantaggio del bianco, che dà colore al tutto. Dove il restauro è non terminato, dove gli intonaci stridono (perché ancora abbandonati o al contrario perché già restaurati) vi è una metafora dell’umana sorte, dei corsi e dei ricorsi della storia.

Difficile resistere anche in queste contrade al fascino della Mitteleuropa, alle tinte delicate, agli stucchi, all’atmosfera sospesa nel tempo: Mozart e le sue note cullano gli avventori dei bar ricchi di Sacher torta e Bomba Charlotta, di tessuti e legni bruni di vecchiaia, mentre fuori tira vento e la primavera sembra non voler spuntare. La cultura dell’intrattenersi nella protezione di una calda sala da tè, al riparo dalle intemperie, ma soprattutto dal va e vieni della gente, dal rumore della via, dalla inquietante insicurezza della piazza. La Slovacchia è come un avventore della sala da tè nella nuova Europa.

Noto la discrezione di due donne slovacche che discutono sedute a un tavolino della sala da tè. Fanno pensare al popolo cui appartengono, gente seria, contadina, senza grilli per la testa, né smodate ambizioni. Un popolo che forse per questo non ha perso la sua fede cristiana, pur faticando non poco a ritrovarsi nelle prospettive di una chiesa che oggi dialoga a tutto campo, persino con gli odiati protestanti o i pericolosi mori.

E pensare che Bratislava ha subìto colpi durissimi nei decenni del comunismo, che testimoniavano la stupidità dell’uomo che si prende per dio e decide di spazzare con un manrovescio un intero quartiere, guarda caso il ghetto ebraico. Per far cosa? Per modernizzare l’insulso vecchiume, per annullare la religione che obnubila le menti e la cultura che ri rifiuta di mettersi «al servizio del popolo». Per far spazio a un fiume di catrame e automobili che schizzano l’acqua delle pozzanghere sulla porta del duomo di San Martino. Per erigere un ponte sbilenco che su uno dei suoi due piloni ha visto atterrare un disco volante, mutatosi d’incanto in ristorante per i notabili del partito. Per spostare 250 mila anime – considerate piuttosto carne senza anima – al di là del grande fiume, in allucinanti gabbie di cemento che si sbriciola e di ferro che arrugginisce. Per erigere un museo d’arte moderna che sembra un hangar di lamiera o una enorme maschera da saldatore… Eppure Bratislava non è morta. È risorta. Grazie alla fede e alla cultura, per una volta alleate.

Bratislava, piazza del municipio. Uno di quei salotti sulla pubblica via che riconciliano la singola persona con la società. Bratislava e le statue in piazza, gli stemmi, le lapidi, le placche commemorative, le strane decorazioni futuriste. Delle due l’una: o desidera darsi delle arie di città d’arte, oppure considera le sue strade come stanze, salotti e corridoi di un grande appartamento aperto a ogni ospite.

Bratislava è un biscotto caramellato e una bambola di legno. La gente, come richiamata da un tamtam sommesso, si riversa nelle strade e nelle piazze ricca di un’incredibile dose di tempo da perdere, da consacrare alle mille e una chiacchiere, senza una riga da leggere, una nota da ascoltare, una frase da scrivere. Il tempo a Bratislava si aggrappa ai raggi del sole primaverile per sospendere il suo corso. E quando la sera viene a tramutare il tepore in gelo, d’improvviso il tempo si abbatte sulla terra, togliendo il sorriso dai volti, gelando ogni velleità conversatoria, chiudendo il becco agli uccelli…

Le mura parlano a Bratislava: qui nel 1988 si è tenuta la prima grande manifestazione contro il regime comunista; qui è stato incoronato il re d’Ungheria; qui due preti anticomunisti sono stati ammazzati… Bratislava ha avuto vari nomi, a seconda del dominatore di turno, perché Bratislava è terra di passaggio, crocevia di civiltà e tradizioni, lingue e aspirazioni politiche: Breslava (slavo), Bratislava (slovacco), Istropolis (greco), Posonium (latino), Pozsony (ungherese), Pressburg (tedesco), Prešporok (ceco). Sotto la torre di Michele, la Michalská, una grande cerchio di ottone incastonato nella pavimentazione indica le distanze a volo di uccello che separano la capitale slovacca dalle principali città europee. Bratislava è posta, dicono da queste parti, al centro dell’Europa, il chilometro zero, il punto di partenza. L’Europa, a ben guardare, non è altro che un insieme di incroci. Si dice che lo siano il bacino della Ruhr, ma anche la regione di Parigi, il corso della Moldava e la confluenza della Morava nel Danubio. Tutta l’Europa è un incrocio. In questo senso Bratislava è un’icona del vecchio continente.

Bratislava in altezza, accanto al maestoso castello – il Hrad, fornita di quattro torri agli angoli del vasto quadrato che costituisce, simbolo della capitale slovacca nel mondo intero –, con una vista mozzafiato su tre lati: a sud la nuova Bratislava del socialismo reale, tutta cemento e bruttura; a ovest la distesa verde dei boschi al confine con l’Austria; a est la città vecchia, il “gioiello”. Un maniero che dice la vocazione politica della sua gente.

Non a caso, accanto ad esso, è stato edificato il nuovo Palazzo del Parlamento, una moderna costruzione che ospita 150 deputati, nella sola camera legislativa del paese. All’entrata, un busto di uno dei padri della patria, lo scrittore J.M. Hurban, mostra un suo detto, diventato il motto della Slovacchia: «Per la verità e per il popolo». Sotto alla statua, la costituzione slovacca, la dichiarazione di sovranità del 17 luglio 1992, che provocò pochi mesi dopo anche l’indipendenza, e i timbri che servirono a “bollare” la carta costituzionale.

È un’esperienza toccante trascorrere una giornata in mezzo ai deputati di una repubblica piccola e giovane come la Slovacchia. C’è il contadino che non sa dove mettere le mani, il boss di quartiere con un anello d’oro per dito, il professore universitario con la giacca stretta e lisa perché non ha i soldi per comprarne una nuova, il vecchio gerarca comunista che ha cambiato casacca come si cambia una giacca, la militante cattolica che più cattolica non si può, il medico che entra nell’aula del parlamento come si entra in sala operatoria… È la meraviglia di un popolo che si scopre libero. Certo, ce n’è da fare per risuscitare in questa gente il senso dello stato. Ma forse ce n’è più in loro che nei nostri professionisti della politica, ricchi solo non del senso dello stato, ma dello stato dei loro sensi…

1 commento:

Tanino Minuta ha detto...

Grazie, Michele! vivendo in Slovacchia ho gioito della gloria, anche solo per pochi giorni. perfino d'oltreoceano mi sono arrivati segni di sostegno. Ero contento per gli sovacchi, meritano di essere riconosciuti. Ho letto, riletto con calma quanto hai scritto qualche nanno fa: perfetto. Hai saputo vedere. Oggi la strada in salita non è facile, ma è "strada" e quindi promette una meta. La Slovacchia ha molto da dire... e saprà dirlo a tempo maturo. Tanino