martedì 8 giugno 2010

Salamis, i capitelli e il mare


Torna papa Ratzinger da Cipro, terra di contrasti e di bellezze.
Visita al sito archeologico di Salamis, stupefacente bellezza.

I libri mi raccontavano che il sito era straordinario. Non solo per via delle pietre antiche, ma della natura stessa. La storia era di quelle potenti, che lasciano a bocca aperta: la fondazione da parte di taluni achei di ritorno da Troia; la supremazia sulla vicina Encomi-Alasia; nel VII secolo a.C., è la più potente città-Stato di Cipro; l’amicizia con Alessandro Magno; la conquista dei Tolomei d’Egitto; la dominazione romana; il cristianesimo dell’apostolo Barnaba, che qui morì; la rivolta ebraica del 116; l’esilio degli ebrei e la fase bizantina, come Con stantia; le scorrerie arabe e il declino, l’insabbiamento e il trionfo della vicina Famagosta…

Arrivo che il sole – meno male – è già calato di molto verso l’orizzonte: sono le cinque del pomeriggio, il caldo comincia a farsi sopportabile e la luce diventa ideale per le fotografie. Anche se il sito è vasto – quattro chilometri su due – mi sento come un leone curioso di pietre antiche. Le terme, il ginnasio ricco di colonne e capitelli ancora in ottimo stato di conservazione, poi l’odeon, lo stadio, il teatro, immenso… Un sito di alto valore archeologico, non c’è dubbio, soprattutto in questa concentrazione iniziale di altissimo valore storico, in una delle zone più “trafficate” dell’intera antichità mediterranea. Noto una certa trascuratezza negli ambienti visitati, ma soprattutto in quelli circostanti, infestati da ogni tipo di sterpaglia e di detriti. Ma non ci faccio caso più di tanto.

Avevo però letto che il luogo più suggestivo dell’intero sito di Salamis era la Basilica di Kambanopetra, immediatamente a ridosso della spiaggia. Mi avvio lungo quella che era la principale via colonnata della città. Venti, cinquanta metri, poi la vegetazione riprende possesso del luogo. Riesco ad avanzare a fatica, facendomi strada tra erbe e sterpaglie. Poi mi arrendo, e debbo trasferirmi su un sentiero parallelo. Un camminamento non indicato sulle piantine sbiadite del sito che qua e là dovrebbero favorire l’orientamento del visitatore, ma che in realtà tendono a confonderlo, perché i sentieri indicati spesso non esistono più, mentre quelli reali non sono segnalati. Senza poi considerare che tali piantine sono state sicuramente tracciate da un geometra un po’ brillo in mal di geometria!

Arrivo finalmente alla basilica, che s’annuncia da una certa distanza con alcuni bianchi capitelli marmorei che sfondano l’orizzonte blu del mare interrotto dagli sbuffi verdi e gialli della vegetazione. Il luogo è altamente suggestivo, non c’è che dire, crea immagini sempre nuove, prospettive avveniristiche, scontri e incontri cromatici di alta qualità estetica. M’immergo per una buona mezz’ora in un fascio di prospettive sempre nuove e sempre uguali, in cui le linee dell’orizzonte, della rena e dei muri millenari giocano a sovrapporsi e a nascondersi.
Lascio poi le prospettive bianche azzurre verdi, e abbasso lo sguardo. Comincia allora un alternarsi di incubi e di sogni, in cui il degrado impensabile s’alterna alla scoperta emozionante. Così m’accorgo che pavimentazioni geometriche marmoree si sfanno sotto i miei passi, al punto che le singole tessere si sparpagliano ora qua ora là, tra qualche anno mese giorno, chissà, cosa mai resterà? Incubo e scoperta si alternano avvicinandomi alla spiaggia. In mezzo agli arbusti, che in fondo lo proteggono, scopro un delizioso pavimento geometrico, una quantità di piccoli triangoli iscritti in un grande cerchio: rossi gialli neri bianchi. M’incanto nell’osservare il sapiente disegno e nel cercare di immaginare il locale che se ne fregiava. E poi m’indigno, per lo stato in cui viene lasciato questo sito così altamente simbolico. L’odio interetnico e talvolta interreligioso è capace di far dimenticare il buon senso, il valore della storia, il perdono che i secoli portano con sé. La profonda avversione che divide turco-ciprioti e greco-ciprioti arriva alla distruzione, o perlomeno all’abbandono, di vestigia tanto importanti dell’ingegno umano, dell’arte, della vera creatività.

Il ritorno al punto di partenza si rivela un ulteriore incubo, perché i sentieri sono mal tracciati, perché dalla terra emerge ogni sorta di pietra, marmo e coccio, a testimonianza di un sto che, se curato a dovere, potrebbe ancora svelare tesori non da poco. Quei tesori che qua e là, al bordo del sentiero, s’intuiscono sotto un gonfiore improvviso delle erbacce o nell’improvviso diradarsi della vegetazione. Si scorgono anche veri e propri tesori, come il Tempio di Zeus, dalle enormi colonne abbattute – una sola, monumento ai caduti, svetta sul mare di marmo ed erbacce che costituisce Salamis –, o la Basilica di Agios Epifanios. Parallele al sentiero, addirittura attaccate ad esso, scopro il percorso delle antiche mura, del VII secolo a.C., violate o addirittura violentate dal nastro d’asfalto sul quale ora cammino.

Eppure, nonostante tutto, malgrado l’incuria e il degrado, continuo a sentirmi in un luogo dove le good vibration si sprecano, dove la storia rimorchia il suo strascico di gioie e dolori, di cura e d’incuria, senza battere ciglio, in attesa che le sue vestigia vengano valorizzate nuovamente.

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