martedì 9 novembre 2010

Belém, la ricchezza e il debito


Il Portogallo vive una profonda crisi economica. Il presidente cinese Hu Jintao si offre di coprire i buchi "acquistando" il debito del Paese. Ma le ricchezze di Belém non sono certo in vendita. Visita del 2004.

Bisogna far astrazione dal ponte una volta dedicato a Salazar, ed ora al 25 aprile, giorno della sua caduta dal potere. Bisogna dimenticare l’obbrobrio del monumentale sgabello al Cristo Re e le silhouette drammatiche delle raffinerie al di là del Tago. Poi ci si può mettere ad immaginare le caravelle salpare verso nuovi mondi e nuovi mercati, inviate da quei regnanti che possedevano lo spirito commerciale nel sangue. Come Manuel I, a cui si devono quei capolavori d’arte manuelina, appunto, che hanno fatto di Belém un incantevole porto verso l’oceano, un viatico e nel contempo uno scongiuro. Di marmo e d’oro.

Osservo passare barche a vela sospinte dalla robusta brezza invernale e petroliere sospinte dalla forza dei motori scoppiettanti dalla loggia rinascimentale della Torre di Belém, fatta costruire da Manuel I tra il 1515 e il 1521. Sono certo che il diportista domenicale e il pilota professionista guardano entrami in direzione della torre; o, meglio, della statua della Vergine con bambino, meglio conosciuta come Nostra Signora del felice rientro in patria, simbolo di protezione per i marinai che intraprendono brevo o lunghi viaggi. La statua è rivolta verso il mare. E all’epoca della costruzione della torre era pure in mezzo ai flutti, perché l’argine distava almeno cento metri più di quanto non faccia quest’oggi.

La loggia è quanto di più elegante si possa immaginare in una costruzione peraltro difensiva, grazie alle eleganti arcate ispirate all’architettura italiana dell’epoca. Oggi la luce è cristallina e limpida, il sole bacia la pietra bianca della torre trasformandola in slancio verticale verso l’azzurro intenso del cielo invernale. I raggi del sole riescono quasi a penetrare gli spessi muri di pietra, e ad illuminare l’angusta scala a chiocciola che lega tra loro i quattro livelli superiori della torre, dando rilievo alla consunzione dei secoli e degli innumerevoli passi che hanno fatto leva su questi gradini ormai irrimediabilmente scavati e deformati. Una volta erano i passi di soldati, animati dallo spirito di conquista territoriale, mentre oggi sono passi di spensierati turisti animati dallo spirito di conquista fotografico, e nulla più. Ma allora imperava la guerra, ora impera il denaro; o forse allora imperava il denaro e ora la guerra. Chissà.

Gradini invece imperiali sono quelli che permettono di accedere ai diversi edifici che compongono l’altro immenso capolavoro dell’arte manuelina, il Mosteiro dos Jerónimos, edificato dal nostro solito monarca Manuel I intorno al 1501, appena rientrate le caravelle conquistatrici di Vasco de Gama. Un trionfo di perizia architettonica e scultorea, di ardimento prospettico e di audacia decorativa. Il chiostro. Ah, il chiostro di João de Castilho, i suoi archi e le sue balaustre in pietra traforata e con intagli preziosi! Verrebbe da trattenervisi senza limiti dìorari e di timing draconiani da turisti onnivori! Ma bisognerebbe ritrovarsi in solitudine, a meditare sulla fallacia dell’umana ricchezza, sulla sete di conquista che mai scompare, nonostante la profondità dell’animo umano che, arrivato alla più sovrumana intimità si volge alla più sovrumana esteriorità.

Se il chiostro invita alla verticalità verso il basso, verso l’intimità, la chiesa invece spinge alla verticalità verso l’alto, verso il Dio che sta nei cieli. Che sta da qualche parte oltre le volte della navata che viene sorretta da quei palmizi che sono le colonne ottagonali, esili ma decoratissime. Uno spazio sapientemente distribuito dalla luce che filtra colorata dalle vetrate policrome.

Il moderno monumento alle scoperte, poderosa costruzione voluta da Salazar nel 1960, per celebrare i 500 anni della morte di Enrico il navigatore, non stona più di tanto sulle rive del Tago, all’altezza del monastero. Magellano, Vasco de Gama, Cabral, Colombo, issati sulla declinante prua di una caravella immaginaria ci stanno bene, con lo sguardo fisso verso quell’oceano che avevano sfidato come si intraprende una coraggiosa discesa nell’intimo dell’anima, o come si scala la via al cielo, terrificante di ascensioni verticali. Forse hanno intrapreso l’infinita orizzontalità dell’oceano perché incapaci di scendere nell’intimo o di ascendere al soglio divino. Eroismi, al plurale.

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