Viaggio in Bolivia/7 - 4100 metri per una città che ha vissuto d'argento, e che ora cerca un suo spazio nel Paese sudamericano.
L’arrivo a Potosí è spettacolare. Dopo aver percorso una decina di chilometri sull’ultimo altipiano che porta da Sucre alla città più alta del mondo (4070 metri per 150 mila abitanti), accompagnati dalla linea ferroviaria che collega le due città (7 ore di viaggio, tre volte a settimana) e che nell’ultimo tratto scorre parallela alla carreggiata asfaltata, d’improvviso appare il Cerro Grande, la montagna conica che sovrasta l’abitato, e poco dopo in basso si scorge una città del color della polvere, disordinata nella sua urbanizzazione, rutilante di gente e mezzi vari, colorata di mille follie cromatiche. Il traffico è caotico, ma come sempre si trova una soluzione anche per i più intricati ingorghi. Potosí conserva nel suo cuore – a valle la città commerciale, a monte quella dei minatori – un centro coloniale assolutamente fantastico, unico nel suo genere, conservatosi quasi intatto nei secoli. Al catasto si contano circa 5 mila edifici che datano alla dominazione spagnola, quindi tra il XVI e il XIX secolo, più o meno ben conservati, più o meno restaurati. Ma belli, coloniali, e per di più abitati, vissuti anche oggi, il che conferisce all’abitato un sentore di autenticità. I balconi chiusi di legno, naturale o colorato, sorprendono il passante con la loro grazia, e le mille storie di vicinato raccontate, anzi sussurrate e mai gridate. I portoni spesso e volentieri appaiono secolari, di legno con enormi borchie, trucchi estetici e di sicurezza. La città è convenzionalmente divisa in quadra, come tutte le città spagnole, ma senza quella regolarità che spesso le rende stucchevoli: ogni via ha qualcosa d’irregolare. Così ci si ritrova d’improvviso in piazzette deliziose, quasi miniature urbanistiche, mai regolari, adattate nei secoli alle esigenze delle singole abitazioni.
Tutti camminano a ritmo lento, l’altezza conta anche per chi ci è abituato, sotto lo guardo onnipresente del Cerro Grande, “montagna d’argento” che a lungo fu la principale fonte di sostentamento dell’impero spagnolo: si calcola che ne siano state estratte milioni e milioni di tonnellate di argento, a costo (piccolo dettaglio) di alcuni milioni di morti (le stime variano dai 2 agli 8). Le donne quechua, e qualcuna aymara, vendono come sempre accade in Bolivia un po’ di tutto, in un disordine-ordinato che comincio a conoscere e apprezzare. La luce è accecante, pura e limpida, il cielo grida d’azzurro e l’abitato sussurra i più vari colori: qui la fede è profonda e l’apporto umano sempre sottovoce. Il paesaggio è “rovinato” dai cavi elettrici e telefonici che sono stati tesi ad ogni altezza nell’abitato, creando conformazioni e intrecci assolutamente fantastici. Qua e là sorgono architetture moderne (quasi mai terminate) che gridano vendetta agli occhi degli dei di ogni religione: che ci fa un cubo blu, un cono rosso o un’ala gialla in un abitato antico come Potosí?
Oggi Potosí conta 15 mila minatori, che lavorano sostanzialmente alle stesse condizioni del XVI secolo. Abitano i sobborghi, hanno orari sfiancanti, muoiono presto, prima dei 50 anni, minati dalla silicosi, dall’alcol e forse anche dall’abuso di coca. Non si può pensare a Potosí senza tener in conto questa umanità sfruttata, ancor oggi, senza capire che essi ne sono stati la ragione iniziale e forse anche attuale, nonostante le vene di minerale puro siano in fase di esaurimento. Anche se i minatori di una volta cercavano di far divenire tali anche i propri figli, sempre numerosi perché erano fonti di guadagno, mentre oggi l’ambizione dei mineros abituati alla televisione è quella di lavorare per trovare un futuro diverso ai propri figli. Lavoratori che sono quasi tutti di origine indigena, ovviamente, ma che in qualche modo hanno trovato una conciliazione nei secoli con i conquistatori.
Visito uno dei tanti conventi della città, quello di San Francesco. Incontro un religioso da 40 anni quassù, padre Felice, viene da Viareggio: «È una città incantevole Potosí – mi confessa –, e non saprei più vivere altrove. La gente è amica, calorosa, è ricca di risorse umane». E la religiosità tradizionale? «Sono cattolici quasi tutti, anche se conservano i riti della propria terra, ma questo non va contro la loro cattolicità», conclude un po’ ottimisticamente, mi sembra. Il convento, oltre ad una serie di dipinti sulla vita del Poverello del XVII secolo, ad una rappresentazione della Sacra Famiglia in sombrero, e ad un enorme quadro catechetico sui sette vizi capitali, non ha ricchezze straordinarie. Salvo il tetto, sopra cui ci si può issare attraverso scale anguste e sconnesse, suggestive nella loro plastica irregolarità: la vista è straordinaria, e dimostra come l’intelligenza urbanistica degli spagnoli, coniugata alla convivialità indigena, abbia prodotto un vero e proprio capolavoro. Il Palazzo della moneta – museo che ripercorre la storia della città sovrapponendola a quella dell’argento –, la Torre dei gesuiti, la chiesa di San Lorenzo dalla quale un prete anziano mi caccia perché ho scattato una foto, il convento di Santa Teresa (all’epoca abitato da ricche ereditarie di nobili famiglie locali)… I grandi esempi del colonial più puro e antico si mescolano con l’indigenicità più spinta, in un connubio che è sudamericano ma è patrimonio dell’umanità.
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