Viaggio in Bolivia/9 - Sul Lago Titicaca, dove il cielo si fonde coll'acqua, infuocandosi
È una perla del lago Titicaca, Copacabana. Per la sua posizione geografica, soprattutto. Costruita tra due incantevoli insenature, è custodita e protetta da due collinette rotondette ma impervie – a 3800 metri la più piccola salita è una montagna –: il Cerro Calvario, promontorio sul lago, e il Cerro Kopacafe, che dà verso la frontiera peruviana.
C’è aria di festa da queste parti, come sempre accade, o quasi, a motivo della Madonna: la Virgen de Candelaria (o de Copacabana), scolpita da Francisco Yupanqui, nipote dell’imperatore inca Tupac Tupanqui. È custodita in una cappella chiamata Camarín de la Virgen de Candelaria, e non è mai stata spostata, perché secondo una tradizionale profezia il suo allontanamento farebbe straripare il lago Titiaca. In questo periodo i peruviani aymara scendono da queste parti per far benedire le loro auto e i loro camion nuovi, decorati con ghirlande di carta e di fiori, facendoli aspergere dall’acqua benedetta dei francescani, e aspergendole essi stessi con quell’altra acqua benedetta, o piuttosto sacra, che risponde al nome di alcol. S’è creata una confusione notevole, anche perché la chiesa sta proprio di fronte al mercato domenicale. E i pur volenterosi poliziotti sembrano aggiungere confusione a confusione.
Una nota a parte merita la “cappella delle candele”, uno stretto e oscuro locale affumicato, attiguo alla chiesa, dove i boliviani offrono le loro candele alla Virgen, ceri di ogni grandezza e colore. Ma non soddisfatti dall’offerta votiva, sciolgono la cera per poi tracciare sui muri le loro domande a disegni, i loro desideri, una casa, un’auto, una guarigione, un matrimonio… Nell’oscurità della cappella ricchi e poveri sono tutti uguali, piccoli e grandi, aymara, quechua, bianchi e meticci.
Ma Copacabana è anche altro. Seguendo un cammino che dalla chiesa s’indirizza verso Sud, verso la collina di Cerro Kopacafe, si giunge a un sito chiamato Horca del Inca, l’osservatorio dell’inca, un misterioso luogo pre-incaico e incaico che conserva una sorta di porta, cioè due blocchi di pietra uniti da una traversina perpendicolare anch’essa di pietra che, secondo la tradizione, nel giorno del solstizio del 21 giugno, Capodanno aymara, viene completamente illuminata dai raggi del sole, all’alba, filtrando attraverso altre pietre forate o disposte in un modo che pare voluto. Al sito si giunge percorrendo un cammino che richiede una buona mezz’ora di marcia, che toglie il respiro e che lascia interdetti per l’alternanza tra lunghi lastroni di pietra levigata e scalini ora incisi nella roccia, ora costruiti con pietre di riporto.
Il vento soffia, mi porta via il cappello a larghe falde appena acquistato al mercato. Ma nel contempo sembra conservare il mistero e il sacro, l’armonia universale e il contrasto tra gli elementi della natura. E ci si lascia inebriare dalla luce e dal vento, dal fiato mozzato e dalla pace del cuore. Pronti a ridiscendere a valle, sul lungolago e sulla spiaggia, dove si beve e ci si gode il sole, si mangia e si espongono le auto appena benedette. La festa da queste parti pare una condizione di vita, assieme alla fatica.
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