Viaggio in Bolivia/8 Una città straordinaria, assolutamente unica. Dove si vive in altezza, lentamente
Pazza città, La Paz, anche se il suo nome non viene certo da “pazzia” ma da Nostra Señora de la Paz, la Madonna più venerata del posto. Pazza lo è, perché non si costruisce una metropoli in tali sfavorevoli condizioni di altezza e di clima, per giunta tutta in salita, o discesa, tra i 3300 metri della Zona Sur e i 4000 metri di El Alto. Pazza perché lungo le sue direttrici presenta un’incredibile varietà di tipologie di abitazione, dalla baracca al grattacielo, dalla chiesa colonial ai palazzi del potere di stile indefinito, dai musei graziosi e ben fatti a quelli che non dicono nulla. La Paz vive di commistioni tra etnie diverse che qui convivono con una certa serenità – anche se, sopra di essa, sull’altopiano, s’è creata negli ultimi 30 anni una’altra metropoli, El Alto appunto, che conta quasi un milione di abitanti, al 90 per cento di etnia aymara, la gente del lago –, nonostante la evidente differenza di razza. Si vedono ricchi professionisti d’origine india e vecchi dalla pelle bianca quasi alla miseria. Così va il mondo, anche a La Paz.
Girellare per la città non è comunque esercizio da poco: in primo luogo perché l’altitudine obbliga a una deambulazione lenta, ponderata, regolare; secondo, perché qui a La Paz non esiste una “cultura” dei marciapiedi, che immancabilmente sono stretti, sconnessi e pericolosamente esposti al traffico caotico della città; che per giunta, ed ecco la terza difficoltà, è composto da auto, pullman e pullmini che non hanno certo passato il bollino blu; infine, quarto motivo per una deambulazione complessa, c’è la mancanza di numerazione razionale nelle strade della città. Non ci sono indicazioni precise, e così quasi sempre bisogna arrangiarsi.
E tuttavia La Paz prende il cuore, mostra la vivacità che viene dalla diversità, evidenzia la reale democrazia del Paese pur nella sua giovinezza e, in fondo, nella sua precarietà istituzionale. Nel corso del mio breve soggiorno, tre giorni appena, assisto in effetti a tre manifestazioni, modeste nel numero – più o meno duecento persone – ma rumorose e decise, al cuore delle quali si trovano donne aymara con i loro cappellini a bombetta in bilico sulla testa, la loro mole cospicua, le loro voce improvvisamente potente (qui si parla sempre piano, quasi sottovoce). E tutto ciò a due passi dal Parlamento, dove si muove la fauna umana tipica del potere, dei portaborse, delle segretarie dai tailleur attillati e scollati, appena un po’. Nei mercati che invadono gran parte della città, soprattutto nel centro, la propensione femminile al commercio s’evidenzia in tutta la sua forza: un venditore su tre è maschio, le altre due sono signore e signorine di tutte le età molto impegnate nella loro missione commerciale, assolutamente iscritta nel loro Dna.
E poi a La Paz ogni via scoscesa (cioè tutte) ha delle presenze misteriose, a cominciare dalla sagoma impressionante dell’Illimani, la mitica montagna che supera i seimila metri, e presente ovunque come una protezione e una minaccia. C’è poi lo sfondo delle pareti del canyon “foderate” di casette in mattoni senza intonaco, o di baracche, o invece di abitazioni più dignitose in alcuni quartieri più residenziali: gradini abitativi senza fine. Ed è misterioso pure l’equilibrio delle sue diverse presenze umane, dei colori della pelle, delle fogge vestimentarie. A La Paz la banalità della piana non esisterà mai. Tutto deve essere più difficile, ma anche più appassionante. Non è antica, La Paz. Come Potosí e Lima, è stata fondata dagli spagnoli per i loro commerci, in particolare quello dell’argento che, estratto dal Cerro Rico di Potosí, finiva nei galeoni ormeggiati nel porto di Lima: La Paz era il principale luogo di transito di tanta ricca mercanzia. E poi si diceva che il Rio Choqueyapu, che costituisce la spina dorsale della città, fosse ricco d’oro, ma non era vero. Ma il capitano Mendoza, che la fondò nel 1548, non se ne diede a male e ne diventò il primo sindaco: seppe tenere assieme la popolazione spagnola, quasi esclusivamente maschile, e quella indigena, dando ben presto origine a una città molto meticcia. E turbolenta, visto che ha ospitato dopo l’indipendenza del 1825 quasi duecento governi!
Non c’è molto da vedere di artistico a La Paz: una cattedrale neoclassica, una chiesa di san Francesco in buono stile coloniale e mestizo, qualche museo – interessante e insolito quello sulla coca; ricco e intrigante quello sull’etnologia e il folklore; imperdibile e ben assortito quello di archeologia, con buoni reperti dalla città pre-incaica di Tiwanaku –, soprattutto immensi mercati, talvolta turistici, talaltra invece “autentici”. Non c’è molto da vedere, è vero, ma La Paz ti conquista con la sua vitalità economica e culturale, con la sua anima una e molteplice, che sembra lasciar spazio a chiunque, in una democrazia partecipativa che pare ancorarsi lontano nel tempo, molto lontano.
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