lunedì 3 ottobre 2011

Isla del Sol, il mare di luce


Viaggio in Bolivia/10 e fine - Lascio le bellezze del Paese andino in un'isola che verrebbe voglia di includere nelle sette meraviglie del mondo.

Ci sono momenti che si oserebbe definire perfetti. Come questo, nel piccolo borgo di Copacabana (il copyright del nome è locale, non carioca!), sulla terrazza di un albergo che si affaccia sul lago Titicaca all’ora del tramonto, mentre dalla spiaggia provengono i rumori della festa dei peruviani che sono venuti qui a far benedire le loro auto dalla madonna indigena dei boliviani e degli aymara, la Virgen de Copacabana dalla pelle scura. Sono appena tornato da un’escursione all’Isla del Sol, che dista circa un’ora di barca da questo porticciolo. Il benessere è totale, salvo un certo affaticamento dello sguardo: un’ubriacatura di luce.

È sì, qui siamo a 3800 metri sul livello del mare, il respiro è faticoso e ogni movimento deve essere calcolato e non si può lasciarsi andare: l’eccesso qui va lasciato solo alla luce, che ne è gelosa. Che rende il mare – pardon, il lago! – un abisso di blu e il cielo un tetto d’azzurro. Che dà rilievo a ogni dettaglio, che universalizza il panorama, che trasforma l’ordinario in straordinario.

L’Isla del Sol è la più grande del più alto lago navigabile del mondo, per estensione secondo solo al Mar Caspio. È nota per essere un luogo sacro per gli inca: ha dato il nome all’intero lago, essendo chiamata nella storia Titi Khar’ka, cioè “roccia del puma”. Il luogo veniva considerato dalle popolazioni pre-incaiche come luogo della nascita di diverse divinità, Sole compreso. Qui fecero la loro apparizione terrestre Manco Capac e sua sorella e sposa Mama Ocllo, i prima inca. Qui aymara e quechua condividono le leggende fondative, e solo qui.

Arrivo dopo un’ora di traversata movimentata: il pilota – un uomo sulla trentina dai denti d’oro, che oggi s’è portato dietro due splendidi marmocchi – mi spiega che a fine luglio e inizio agosto, cioè in pieno inverno, qui capitano giornate così: apparentemente il vento non spira, ma le acque del lago si mettono in movimento come scosse da un fremito interno, che sale dagli abissi per volere della Pacha Mama, della Madre Natura, l’armonia universale degli aymara. Ma tutto quanto si spalanca intorno a noi ha del fantastico: le Ande e la Cordillera Real; le isole e isolette che si materializzano dinanzi al natante; i radi boschi di eucalipto; le nuvole che muovono un poco il cielo sempre terso; la spuma delle onde.

Dopo il superamento di uno stretto che pare troppo angusto anche per una piroga, ben presto giungiamo al porticciolo di Pilko Kaina, nell’Isla del Sol. Ed è un universo che si apre, il mondo inca assieme a quello pre-incaico, il passato e il presente totalmente aymara. Un primo complesso di rovine dà l’idea di quel che può offrire l’isola: il Palacio del inca, presumibilmente fatto costruire dall’imperatore Tupac-Yupanqui ha le finestre e le porte rastremate, dai davanzali e dalle soglie verso gli architravi. Ma non c’è solo il retaggio incaico: nella lunga passeggiata tra Pilko Kaina e Yumani, per un inimmaginabile sentiero in costa, una terrazza sul lago e sulla cordigliera, incontriamo lama e asini, alpaca e pecore accompagnati dai loro pastori, sempre riservati, sempre gentili, talvolta refrattari alla fotografia d’uopo. Un mondo che ora s’apre al turismo, e chissà come andrà.

A Yumani si torna in qualche modo alla civiltà, anche se la presenza aymara è così forte che pare difficile che un popolo che ha resistito agli inca si faccia abbindolare dal dio denaro. È qui che scendiamo i 200 e passa gradini di una scalinata chiamata Escalera del inca, che a metà percorso porta a delle fonti perenni che stupiscono in un luogo come questo: sono la Fuente del inca, che viene suddivisa in tre canali di pietra che fiancheggiano la scalinata, di rara perfezione, curata e percorribile agevolmente. La sorgente irriga un meraviglioso giardino a terrazze, ricco di piante e fiori. Per gli inca i tre canali di pietra erano la rappresentazione fisica del loro motto: Ama sua, Ama lulla, Ama khella, cioè non rubare, non mentire, non essere pigro. Nella luce del pomeriggio ancora abbagliante non posso non guardare a questo popolo aymara mescolato al popolo dei turisti, così riconoscibili e così degni. E m’appare chiaro come l’identità di un popolo sia una questione di luce, più che di essere. La luce della divinità e quella dell’umanità che si fondono. Abbagliando.

Non mi resta che aspettare la barchetta che ci riporta a Copacabana. Il sole cala dietro le nostre spalle, la luce si canalizza, si materializza, si colora. Come un amore maturo.

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