mercoledì 12 ottobre 2011

Ravenna a portata di sguardo


Una mattinata a Ravenna è come un sogno nella luce. Non tanto e non solo quella esterna – che pure in questo settembre di sole non è da poco –, quanto quella che emana dai mosaici ravennati.

La città è carina, opulenta, cordiale, ma somma architetture spesso infelici del periodo fascista e post-fascista, a gioielli del periodo bizantino, quando qualche decennio la vide trasformarsi addirittura in capitale imperiale, seppur di un impero in disfacimento. Roma migrò in questo sito perché era facilmente difendibile, soprattutto per via del delta del Po e di quelle paludi – le valli – che le proteggevano le spalle, col mare dinanzi. Per qualche decennio, tra il 493 e il 568, funzionò, sotto Teodorico e Belisario, prima dell’invasione longobarda. Poi le distruzioni, o forse piuttosto l’abbandono e le inondazioni periodiche, in qualche modo ne preservarono i gioielli.

Perché di gioielli si tratta, indiscutibilmente. Tutti interiori, ché l’esterno è tutto in laterizi, gradevoli ma in fondo monotoni. È l’interno che si accende, che ci accende, che li accende (i cuori e le anime). Un incanto che, ad esempio, annichilisce nel progressivo adeguamento degli occhi all’oscurità del Mausoleo di Galla Placidia: è la prima volta che vi penetro, ma l’immediata e poi la mediata sensazione è di conoscere tassello per tassello l’intera superficie musiva del piccolo paradiso terrestre, per averne serbato memoria nel cervello: decorazioni, figure umane, vegetali, animali, colombe e riquadri, spirali e volti. Troppo belle queste immagini per non averle registrate definitivamente nella memoria liquida – ma ben più solida di quella del calcolator elettronico – del cervello umano. La copertina di un libro, il fregio di un biglietto nuziale, il frame nascosto di un film di Tarkovski, un’illustrazione nel sussidiario di terza elementare…

Si accende Sant’Apollinare nuovo, con la fantasmagoria delle Vergini e degli Angeli preceduti dai Magi verso la Madonna con Bambino, con città e basiliche fissate e idealizzate nei mosaici, come se le due schiere volessero accompagnare l’illusione di una terrestre possanza che s’annuncia caduca e cadente. Come l’impero. Una storia vera: tra il 493 e il 496 Teodorico la fece costruire per gli ariani, etale rimase fino al 560, quando divenne luogo di culto latino. Il bel campanile circolare data al IX-X secolo, invece.

Si accende pure nel minuscolo e infossato Battistero degli ariani, con una enorme pietra fessurata al suolo e una cupoletta a mosaico coevo d’incantevole precisione: rappresenta il battesimo di Cristo e gli apostoli. E poi il terzo scrigno, il Battistero neoniano, del V secolo, insuperabile nella sua semplicità: rappresenta il battesimo di Cristo, apostoli e troni cruciferi.

Ogni dettaglio architettonico della città non può che impallidire dinanzi a tanta bellezza. Non potrebbe essere altrimenti. Le vie di Ravenna sanno tale verità e vivono quindi di umiltà – sulla propria natura – e di fierezza – per ospitare la natura dei gioielli bizantini. E sta proprio qui la grandezza della città romagnola.

Mosaici ravennati. Difficile non rimanere abbagliati, nel cuore. Un impero in disfacimento ha qui concentrato le ultime energie creative, già indicando la direzione dell’Oriente, l’apertura, il confronto e il dialogo tra le culture, più che la lotta tra di esse. I risultati paiono straordinari, addirittura decisivi. Non per l’oro che brilla, ma per quello che fa brillare gli altri colori e le forme tutte. Questa non solo è arte, ma concentrato di storia e geografia e tradizione.

Sant’Apollinare in Classe: basilica cimiteriale del 549, con un mosaico absidale da togliere il fiato, con un Buon pastore e le sue pecore che incanta di bucolica atmosfera che sfiora la teologia paradisiaca. Classe, con la maiuscola, è il paesello che sta alle spalle della chiesa, il porto sull’Adriatico. Ma è anche la “classe”, con la minuscola, quella che rende grandi la bellezza creata dall’umana perizia.

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