Nella Valle Sacra inca, che si estende più o meno tra Cuzco e Ollantaytambo, in Perù, lo scenario naturale ha del maestoso e del misterioso.
Sul fondo valle scorre il fiume sacro inca, il río Urubamba, più avanti chiamato invece Vilcanota, in uno spazio sostanzialmente assai angusto, cioè circa un chilometro, con pareti che s’innalzano per mille, duemila metri, spesso e volentieri interrotti nella loro monotonia scarsa di vegetazione, verso i giganti andini del Pitusiray e La Verónica, montagne da venerare, apus. Qui la storia ha parlato, e non poco. Furono gli ayamarca ad abitare il sito prima degli inca. Furono sconfitti dall’imperatore Pachacútec solamente verso la metà del XV secolo, dopo un’acerrima resistenza capitanata da eroi quali Paucar Ancho e Tokori Tupa. Lo sfruttamento del sito iniziò subito dopo, con opere grandiose, quali il raddrizzamento del río Urubamba per tre chilometri, la costruzione di un efficientissimo sistema di irrigazione, la costruzione di enormi granai, l’edificazione di un enorme ponte sul fiume che resistette cinque secoli, prima di essere sostituito da una struttura metallica che però poggia sull’unico, antico pilastro inca. Gli spagnoli tentarono di occupare Ollantaytambo già con Francisco Pizarro, ma il leader inca Manco Inca resistette a lungo, grazie anche a due enormi muri difensivi ancor oggi visibili.
Ollantaytambo è certamente un luogo particolare sotto il profilo storico, più di tutti gli altri centri che punteggiano la valle: Pisac, Urubamba, Calca... Qui gli inca hanno vissuto, ma raccogliendo l’eredità di civiltà millenarie, appunto, pre-incaiche, in particolare gli ayamarca. L’abitato attuale, più che in qualsiasi altro centro della regione, e forse dell’intero continente latino-americano, è rimasto simile a quello del XV secolo, o forse ancora prima. Anche perché, soprattutto nella valle di Yucay che parte dalla città, abitano popolazioni ancora considerate di purezza etnica incaica. Come si dice, da sette generazioni. Le basi murarie sono tipicamente incaiche; ma spesso anche la parte superiore delle abitazioni, di fango adobe e coi tetti di paglia, probabilmente è assai conforme agli standard dell’epoca. Entrando in una di queste abitazioni – tutte circondate da alti muri, a proteggerne l’intimità e la sicurezza, in isolati chiamati canchas – si riconoscono gli spazi per la cucina, quelli per la notte, quelli ancora per la convivialità, sotto la protezione di lama mummificati, dei teschi degli antenati, di simboli e raffigurazioni della religiosità tradizionale…
L’ordito della città è regolare e particolarmente riconoscibile. È gradevolissimo abbandonarsi alla deambulazione senza meta, scoprire angoli sempre nuovi, alzando lo sguardo ad ammirare le tre valli – Valle Sacra, Yucay e Tambo – che si aprono al confluire della città, per poi abbassarlo sull’acciottolato regolare ma faticoso per la nostra deambulazione abituata all’asfalto e all’assenza di asperità. Due bimbette con in testa un vaso di petunie fucsia, vogliono assolutamente farsi fotografare per strapparmi una moneta. Cedo, e nei loro occhi leggo non solo la gioia di avermi fregato ma, soprattutto, l’orgoglio di un popolo indomito, che gli spagnoli credevano di avere sottomesso. Fieri forse non come gli aymara, ma quasi.
Sulla montagna a Oriente, si riconoscono i Qolqas, una sorta di vecchi granai, delle fortificazioni e dei condomini – sì, dei condomini, con abitazioni a due piani. Ma è a Occidente che l’incanto diventa realtà. È il luogo della cosiddetta “fortezza”, che nei fatti era un luogo complesso, come sempre accade per gli insediamenti inca di grande portata e dimensione: Francisco Pizarro la definì «così ben fortificata da essere terrificante». Grandi terrazze fortificate salgono verso l’irraggiungibile santuario, talvolta curvilinee, per seguire mimeticamente le variazioni orografiche. Nella cinta muraria sono ospitati anche edifici amministrativi e abitativi, oltre a vari luoghi di culto.
L’ascesa alla fortezza è lenta, deve essere lenta, ma in fondo assai gradevole, nel clima secco di queste parti, che al sole può diventare anche impietoso. Le scale sono state indiscutibilmente una specializzazione degli inca: tutto nei loro insediamenti in fondo ha forma di scala, proprio tutto. Si sale accompagnati da lunghe e larghe terrazze che probabilmente erano coltivate, fino a un gradino più alto degli altri, su cui era sistemato il tempio. A questo livello i muri diventano spettacolari nella loro precisione assoluta d’incastro: le pietre, alcune enormi, di tonnellate e tonnellate di peso, erano state trasportate in questo sito dalla montagna di fronte, in cui ancora si riconosce la cava d’estrazione. Sia dal nostro lato della valle che dall’altro, sono visibili delle ampie rampe che sicuramente erano servite per trasportare le pietre, a costo certamente di una quantità impressionante di vite umane. Ma erano altri tempi, il valore della vita umana non era quello attuale (per certi versi). Sulle enormi pietre del tempio certamente erano state scolpite dei bassorilievi raffiguranti forme animali, simboli religiosi o astronomici. Ma gli spagnoli, a quanto sembra, non sono andati per il sottile nel cercare di convertire le masse alla cattolicità.
La città era stata circondata da Manco Inca, per resistere ai conquistador, con mura fornite di torri e merli, mentre nelle lunghe pareti erano ricavate nicchie o finestre dalla caratteristica forma a trapezio, mai rettangolari, chissà perché. Ciò conferisce all’insieme delle rovine un’inconfondibile aura di esoticità e un marchio inconfondibile. È difficile riuscire a svelare il segreto delle varie funzioni degli edifici: gli esperti ancora si arrampicano sugli specchi al riguardo. Solo sotto la fortezza, a livello dell’attuale città, certamente degli edifici erano dedicati al culto e all’uso dell’acqua, e altri erano invece centri amministrativi. Si riconoscono pure degli edifici costruiti dagli spagnoli, con assai minor perizia costruttiva!
Ed è deambulando nel fantastico sito di Ollantaytambo che mi trovo a rifiutare di giudicare la civiltà inca, come qualsiasi altra civiltà. Serve rispetto, serve attenzione, serve un lungo periodo di studio e approfondimento per riuscire a esprimere un qualsiasi giudizio al riguardo. Meno male.
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