martedì 2 ottobre 2012

Il tempio alla chiusura del lago



Pura Ulum Danu, sullo specchio d'acqua balinese di Batur, testimonia la fede fanciullesca e profonda delle popolazioni locali

Il lago Batur, a Bali, è naturale senza esserlo, perché s’è creato in seguito alla tremenda eruzione del vulcano Gunung Batur, nella notte dei tempi. Ha la forma di una semiluna: sulla riva orientale è lussureggiante ed esuberante in ogni sua espressione – si tratta delle pendici del vulcano Gunung Abang, più calmo del suo confratello –, mentre sulla riva occidentale, che porta invece alla cima del Gunung Penulisan – ogni giorno e ogni notte manifesta in qualche modo la sua esuberanza che sale dalle profondità della Terra – è brullo, arido, lavico. Eh sì, non è che un’enorme colata di lava che la vegetazione fatica non poco a ricoprire. Tre paesetti sopravvivono alla base del vulcano, sulla riva del lago; gli abitanti vivono di pesca e di quel po’ di turismo che viene dallo stesso vulcano. Una strada asfaltata corre lungo il lago, tracciata sul terreno senza tanti scrupoli, e quindi si rivela un continuo saliscendi in brevissimi spazi e senza porre attenzione alle pendenze. Se poi si considera la proverbiale usanza balinese di tracciare sedi stradali strettissime, ecco che ci si può fare un’idea dei rischi che si corrono su questa stradina. In fondo al lago, in fondo a questa strada e in fondo al paesino di Sonh, sorge, addossato all’esuberante vegetazione dei primi contrafforti del vulcano Abang, un tempio che non ha particolari meriti né artistici né storici, ma che risulta assai venerato, non solo dagli abitanti locali, ma da tutti i balinesi del Nord. Prova ne sia il fatto che anche oggi interi villaggi si sono spostati fin quassù (o quaggiù) con ogni mezzo (di preferenza i camion verdi Isuzu, scelti perché molto stretti) per celebrare coi propri sacerdoti i riti del villaggio.
È così che, arrivato a destinazione, capito nel bel mezzo di una celebrazione indù che ricorda alla divinità la fertilità necessaria dei loro campi. Mi cingono col tradizionale sarong, raccomandandomi di non accedere al tempi principale per rispetto cultuale. Ma tant’è, i canti, le musiche, le orazioni sono così insistenti e invitanti che non riesco a trattenermi e, seppur con rispetto e adeguata circospezione, penetro nel recinto sacro. Circa 300 persone sono sedute per terra alle spalle degli officianti vestiti di bianco dal turbante alle babucce, in file regolari, ma con una certa anarchia sui bordi. Qualcuno si accorge dell’intrusione, ma inequivocabilmente mi sorride, tutti mi sorridono, tutti paiono essere grati della mia presenza. Forse solo i sacerdoti si direbbero scontenti…. I riti si susseguono: campanelle suonano di continuo invitando a compiere gesti coordinati con le mani: una di queste preghiere delle dita mi colpisce particolarmente, quello di sollevare le mani giunte sopra il capo, lasciando sporgere oltre le estremità delle dita un petalo di fiore, solo uno.
Il sole finalmente fa capolino al di sopra del vulcano, cadendo dall’alto quasi a perpendicolo su queste mani e questi petali, conferendo alla scena qualcosa di magico, o piuttosto di divino. Ma è l’ora delle processioni e delle aspersioni: donne, uomini e bambini portano e depongono le loro offerte su uno degli altari del tempio, di preferenza su quello che giace alla base della alta pagoda a undici livelli, elegantissima ed ardita, mentre i preti in bianco aspergono abbondantemente di acqua benedetta il capo dei presenti, molti dei quali, non so per che motivo, hanno la testa coperta da foulard rossi. E la fine della cerimonia fatalmente s’avvicina; la gente si solleva guardandosi intorno gioiosissima, in una sorta di abbraccio collettivo che mi commuove non poco, anche perché il primo ad esservi coinvolto è il sottoscritto, col quale non pochi desiderano farsi fotografare. I fedeli escono, consumano un frugale pasto a base di riso, fagioli e pesce, a quanto ne capisco, e poi risalgono diligentemente sui loro camion verdi senza la minima recriminazione, nonostante li attendano quattro ore abbondanti di traballamenti vari e la visita ad altri due santuari lungo il cammino di ritorno. E io riprendo la “mia” Toyota Avanza e li seguo lungo la strada della lava, felice della cerimonia appena conclusa ma anche e soprattutto per aver potuto conoscere qualche brano della vera cultura balinese non ancora toccata, se non di striscio, dal demone del turismo. Nel tempio alla chiusura del lago.

Nessun commento: