lunedì 19 novembre 2012

Carbognano, vino e inchiostro



Nella Tuscia alla ricerca dei borghi appollaiati sugli speroni di tufo.

I borghi della Tuscia viterbese hanno il fascino sottile di una natura superba che ricopre col suo mantello la superficie tufacea, tenera, che pare un territorio bombardato: forre, dirupi, falesie, pinnacoli. Carbognano è uno di questi villaggi appollaiati su uno sperone di tufo. Qui anche la storia fece il suo corso: nel Mille dipendeva da Farfa, mentre nel Medioevo fu contesa tra signorotti locali (Anguillara e Di Vito) e lo Stato pontificio. Nel 1962 Pio II concesso il paese al conte Cristoforo di Carbognano. Con Alessandro VI il borgo passò alla bella Giulia Farnese, moglie di Orsino Orsini e amante del pontefice. Con Urbano VIII divenne principato sotto i Colonna. 

È una giornata che s’annuncia di tempesta. Ma, come spesso accade nei dintorni di Roma, le previsioni nei fatti vengono smentite. E così la giornata è si movimentata, sì ventosa, sì incerta, ma comunque straordinariamente luminosa. Dopo un girovagare festivo senza meta – fantastica pardita di tempo –, giungiamo in uno dei tanti borghi appollaiati sugli speroni rocciosi della zona, Carbognano appunto. Cerchiamo un ristorante, non se ne trova traccia. Nella piazza della chiesa dedicata a San Pietro apostolo, del XVIII secolo neoclassico, su una parete si scorge uno strano conglomerato che si nrivela composto da pentole d’alluminio affisse al muro, tra rampicanti e fiori, oltre ad una vecchia cassetta della posta rossa: è l’annuncio pubblico dell’esistenza de “La locandina di Bacco“, un piccolo ma delizioso ristorante in cui, sembra, si mangia e si beve in allegria, in compagnia, in simpatia. L’interno appare subito curato, caldo, in qualche modo chic e rustico nel contempo. Ma è al completo. Insistiamo, finché proponiamo al ristoratore – barba bianca, piccolo chignon e una grande affabilità – di prepararci un tavolo all’esterno, sulla terrazza, visto che il tempo appare leggermente più clemente di quanto annunciato; persino il sole pare squarciare l’aria tersa e fresca per scaldare le nostre membra e rianimare cose, persone ed edifici.

Poi è il festival dei sapori e degli odori, semplici, accompagnati dalla premurosa attenzione dello chef, il signor Mauro, che suggerisce senza mai imporre, sottolinea senza mai parafrasare. Si comincia con un carpaccio di vitello con funghi porcini e lonza con pinoli, radicchio e arance, per proseguire con delle gavinelle (rustiche fettuccine) al ragù di cinghiale e giubilare con una tagliata di manzo croccante ancora ai funghi porcini, finendo quindi con un dessert che combina panna, castagne, cioccolata, meringa e crema in una composizione artisticamente discreta e gustativamente straordinaria. Il vino? Un “Veste Porpora” della Tenuta Ronci di Nepi, un Igp di 13 gradi e mezzo: un nettare «del color della porpora – leggo –, con sentori di frutti rossi e di spezie. Al gusto è morbido, rotondo con tannini fusi che conferiscono una lunga persistenza». L’apoteosi è una goccia di grappa bianca e morbida, di Sangiovese, versata nella tazzina del caffè ormai consumato. Poi si vive di ricordi e di retrogusti tornando docilmente verso casa, osservando il verde fresco e bagnato della Tuscia fuori dai finestrini. Qualcosa di simile alla pacificazione, se non alla pace.

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