giovedì 10 gennaio 2013

São Pedro, il vento e il farol



Viaggio a Capo Verde/3 - Uno dei pochi paeselli dell'isola di SãoVicente, isola senz'acqua dolce, o quasi

São Pedro è un buco di paesello divenuto famoso nel mondo intero (si fa per dire) per una semplice sigla: VXE, che è poi l’indicativo dell'aeroporto internazionale di São Vicente, inaugurato appena tre anni fa, e dedicato a Cesária Évora, la musa della morna. Ma è più conosciuto col suo nome originario di São Pedro. Si tratta in realtà di un capannone giallo e grigio tutto nuovo, al bordo di una pista da brivido che s'incunea tra due vicine catene montuose. Vicine è dir poco, perché sono praticamente attaccate al nastro di asfalto. São Pedro conta la bellezza di 215 anime, un caffè in piazza e altri due (almeno hanno l’insegna) all'interno dell'abitato, un palazzo comunale che è poco più di una catapecchia, una dozzina di barche coloratissime, un gazebo metallico per vecchi e bambini, una ventina di cani randagi (ma del numero non sono sicuro), undici case intonacate e dipinte (le altre espongono gli orrido foratini di cemento, poco, e di polvere di lava, molta, con i quali sono stati edificati) e una giovinetta che veste di giallo e di verde, che potrebbe rappresentare la Madonna nel presepe natalizio del villaggio.

Sono arrivato a São Pedro in aluguer quando il vento è così forte che gli atterraggi degli aerei sono stati sospesi e le barche sono state tratte a riva: oggi non si pesca dice l’autorità portuale dell’isola, che dicono inflessibile. Così la dozzina di aitanti giovanotti che di solito svolge il mestiere di pescatore è costretta a terra. In due o tre gruppetti ingannano il tempo maneggiando i loro cellulari, fumando sigarette fatte a mano, scherzando e ridendo o, ancora, svolgendo operazioni contabili particolari: enumerare i delfini che guizzano nel mare spumeggiante. A quanto capisco nella nostra fantasmagorica conversazione in globish, se tutto va bene riescono a guadagnare ciascuno 500 scudi al giorno, cioè 5 euro. Pescando di tutto, soprattutto tonni, orate e aragoste. Vorrebbero emigrare, come tutti i giovani capoverdiani, ma non sanno nemmeno dove potrebbero recarsi. Ormai i loro padri tornano dagli Stati Uniti e dall'Europa con le pive nel sacco, mentre anche qui arrivano i cinesi. Non capiscono più come va il mondo: una volta c'erano i Paesi ricchi e quelli poveri. Loro erano i poveri e andavano dai ricchi, e guadagnano e facevano poi arrivare i loro figli nella terra d'elezione. Oggi non è una più così. 

Scendo alla spiaggia percorrendo una scala che fu di cemento ma che ora è fatta di sabbia scivolosa con qualche incrostazione di cemento. Sabbia che turbina ovunque, mentre il verde e il blu del mare, anzi i verdi e i blu, farebbero urlare qualunque pittore, e mentre il candido faro della Ponta do farol, appunto, crea uno stupefacente contrasto cromatico. Il sole brucia la pelle, nonostante il vento fresco. I colori delle barche sulla spiaggia, una di esse addirittura fosforescente, pessimo tributo alla modernità, invitano all'estasi cromatica, mentre gli spruzzi delle onde trasformano l'aria da secca che era in umidissima. Chiudo gli occhi, ma l'autista dell'aluguer suona il clacson, sta per ripartire. E fino a sera non ce ne saranno più.

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