mercoledì 5 giugno 2013

Recanati, la musica sull'ermo colle



Sulle tracce di Leopardi, su e giù per il suo universo sospeso sulle colline marchigiane.

Come potrei visitare Recanati senza fermarmi sull’ermo colle e tracciare segni sul bianco taccuino, segni di senso? Son qui, maggio è fresco, ha piovuto, tira vento, il crepuscolo s’immalinconisce e m’immalinconisce. E godo nel sostare e ripetere le parole del poeta, le sue musiche del Verbo. Non a caso scrivo queste note su un taccuino a pentagramma, le musiche suonano ovunque, qui a Recanati. Vengo da Casa Leopardi, da dove fuoriescono questa sera i gorgheggi, le scale, i solfeggi, gli esercizi tonali di una giovane donna, senza tratti, senza volto, solo voce e melodia. Mi sento come Giacomo il Grande, uomo dai tanti fallimenti amorosi e dagli infiniti amplessi platonici tra anime, tra corpi sublimati.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,/ e questa siepe, che da tanta parte/ dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.

Recanati è uno strano paese, allungato com’è su un colle arcuato, sulla sommità del colle che pare una lama appena un po’ arrotondata. Da Settentrione a Meridione appare perciò un grumo, quasi una minuscola piramide di casette appollaiate le une sulle altre, mentre da Oriente e da Occidente ecco che sembra una lunga teoria di casette allineate sul crinale del colle. Bizzarro, ma non poco affascinante.

Io solitario in questa/ Rimota parte alla campagna uscendo,/ Ogni diletto e gioco/ Indugio in altro tempo: e intanto il guardo/ Steso nell'aria aprica/ Mi fere il Sol che tra lontani monti,/ Dopo il giorno sereno,/ Cadendo si dilegua, e par che dica/ Che la beata gioventù vien meno.

Il borgo di Recanati è pulito e ordinato, discretamente molle, viuzze che non riescono mai ad essere rettilinee, per via dell’orografia ma pure dell’indole dei suoi abitanti: basta ascoltare la parlata – musicale, eccome! – dei suoi cittadini per capire che qui di rettilineo e monotono ci può essere ben poco. M’immagino Giacomo il Piccolo in faticosa deambulazione, gobbo e timido, timoroso di ogni linea troppo dritta, ma pure dell’incertezza dell’urbanistica, delle scale e delle scalinate. Poi, d’improvviso, tra due file di case di mattoni rossi e di pietre bianche ingentilite da gerani rossi-tutti-rossi, s’apre lo sguardo sulla collina marchigiana, dolce e molle come tanti corpi di donne abbracciati alla terra. Colori teneri, rigati senza essere irregimentati, le vie di fuga delle silhouette muoiono d’amore sul colle che segue, in una sinfonia che un Pergolesi potrebbe forse scrivere in musica sui miei pentagrammi.

O graziosa luna, io mi rammento/ che, or volge l'anno, sovra questo colle/ io venia pien d'angoscia a rimirarti:/ e tu pendevi allor su quella selva/ siccome or fai, che tutta la rischiari.

Percorro di nuovo la dorsale del borgo di Recanati. Di perle ne scopro non poche: il Palazzo comunale, la Torre del borgo, la chiesa di San Domenico, la Pinacoteca comunale… Ma nel mio animo in questo concentrato di senso non restano i palazzi, restano le viuzze, le piazzuole, gli slarghi, le file di case che s’incurvano per seguire e per determinare la via. È qui che Recanati svela la sua natura: il piccolo che diventa enorme, il filo d’un sentimento che trova i caratteri dell’immortalità, una serie di fonemi che fa toccare l’infinito.

E come il vento/ odo stormir tra queste piante, io quello/ infinito silenzio a questa voce/ vo comparando: e mi sovvien l'eterno,/ e le morte stagioni, e la presente/ e viva, e il suon di lei. Così tra questa/ immensità s'annega il pensier mio:/ e il naufragar m'è dolce in questo mare.

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