giovedì 8 ottobre 2009

I "giusti dell'Islam"


Viene inaugurata oggi a Roma l'esposizione della mostra "Giusti dell'Islam" alla Camera dei Deputati. Al Monastero Santa Cecilia di Roma, il 24 settembre 2008, era stata inaugurata la stessa esposizione. Mi era stato chiesto di portare il mio contributo. Eccolo.

Pudore e malessere. Politically incorrect. Sono questi i sentimenti che troppo spesso contraddistinguono soprattutto nel mondo musulmano, ma anche in quello cristiano e in quello ebreo, coloro che in qualche modo ricordano questi “giusti”, coloro cioè hanno avuto modo di salvare degli ebrei dalla Shoah, di proteggerli a loro rischio, di evitare loro morte, disperazione, barbarie. È un dato di fatto, ovviamente legato in mille rivoli con la troppo prolungata situazione di conflitto nella terra che fu di Abramo e dei profeti.

Ricordo un episodio a Damasco, mentre stavo intervistando un deputato considerato assai “aperto”, Muhammad al-Habash. Giunti a parlare della questione israeliana, mi resi conto che non era più possibile avere una conversazione razionalmente libera e profonda. C’era chiusura e pregiudizio, non tanto legato alla singola persona – era un uomo di grande cordialità –, quanto alle situazioni storiche troppo a lungo avviate su itinerari che si rivelano impasse. Finché mi convinsi che bisognava ripartire da Abramo, dalla sua promessa. E il deputato cominciò a raccontarmi le sue piccole storie di rispetto e di convivenza, in fondo di alto rispetto per gli ebrei. Siamo all’interno di quelle “sofferenze della memoria”, come scrive Dimitri Nicolaidis, che vanno guardate, analizzate e assunte su di sé.

Ho girato non poco il mondo a maggioranza musulmana per i miei libri, e posso testimoniare come in effetti non siano ormai evidenti le tracce di questi uomini. Anzi, sono quasi impercettibili. A maggior ragione, allora, sono encomiabili iniziative come quella di Robert Satloff, o questa mostra itinerante, orchestrata da Giorgio Bernardelli, per scoprire queste tracce flebili ma indelebili.
Ricordo ad esempio in Tunisia, allorché un vecchio e oscuro imam di Hammamet, dopo lunghe ore di tè alla menta e di iodio sulla terrazza d’un palazzetto nella casbah – proprio accanto alla tomba di Bettino Craxi – cominciò a raccontarmi la storia di quel musulmano che poi individuai con Khaled Abdul-Wahab, e del rapimento dell’ebrea
Odette Boukhris da parte dei nazisti e dell’ospitalità data a 24 famiglie ebree nella sua tenuta. Poco di quel che mi raccontò trova riscontro esatto nel libro di Martin Gilbert e in quello di Satloff, ma lo spirito della sua tradizione orale era quello giusto: contro l’abominio, contro la violenza, bisogna non guardare in faccia se uno è ebreo o cristiano o musulmano. Era un “costruttore di tende abramitiche”, come direbbe Massimo Giuliani.

Altre tracce le ho trovate in Bosnia, a Sarajevo, città d’incanto e d’orrore. Zejneba Hardagan è un nome che suona come musica alla gratuità. Il quartier generale della Gestapo si trovava di fronte a casa sua. Avvertirono gli amici ebrei degli spostamenti dei nazisti. Ne salvarono non pochi, tra cui Kabilio. Il padre di Zejneba fu scoperto nelle sue trame, e venne internato in un campo di concentramento, dove morì più tardi. Nel 1990, durante l’assedio di Sarajevo, ricevette una lettera: la famiglia di Kabilio la invitava a rifugiarsi a Gerusalemme. Lì Zejneba trascorse gli ultimi anni della sua vita, e ora la sua salma giace in un cimitero ebraico. Una storia che mi venne raccontata da Alma Sunje, un’altra musulmana, che l’aveva come vicina.

La vicenda di Satloff, della sua testardaggine, è uno di quei gesti di gratuità nella ricerca che aprono la via alla riconciliazione semplicemente rispolverando la memoria. Memoria personale e collettiva. Ma un occhio attento può incontrare questi “giusti dell’Islam”, o più semplicemente dei “giusti” che non hanno esitato e non esistano a sentirsi solidali con degli ebrei. Vorrei, più che ripercorrere la lunga storia di coloro che hanno salvato degli ebrei durante l’abominio della Shoah, cercare di trovarne alcuni che, nell’oggi complicato delle relazioni internazionali, non esitano a lavorare perché ciò non si ripeta.

Una mostra come questa ha senso se in certo modo diventa una gara all’emulazione, certamen aemulamini, in tepidi strisciante antisemitismo e di evidente razzismo. Di esclusione.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

quello che stavo cercando, grazie

Anonimo ha detto...

good start