Su "La Stampa" viene segnalata la scoperta di una necropoli nella valle del fiume Mtkvari, nella Georgia meridionale. In realtà nel Paese di necropoli ne esistono una gran quantità. Reportage del 2008 da una di esse.
Mai m’era capitato di visitare una città sotterranea così… aerea. Mai ero penetrato in così tanti vani underground, aperti su un pallido cielo afoso d’agosto. Mai avevo salito e disceso tanti scalini in un così breve lasso di tempo – non ce n’è uno uguale all’altro – nelle viscere della terra. Erano 3500, dicono, le abitazioni del sito, ma attualmente solo poco più di 300 possono essere visitate. Vale la pena di farlo, anche se Vardzia è troppo lontana dai tradizionali circuiti turistici: Batumi è a cinque ore, Kutaisi a sei e Tbilisi a sette, guerra permettendo, ovviamente, perché di questi tempi si rischia di vedere raddoppiati o triplicati questi orari ipotizzati.
Già l’approccio logistico, chiamiamolo così, alla città nella roccia incute un certo timore, per via dei 17 chilometri di strada sterrata che vanno affrontati con non poca pazienza e circospezione. Non incrociamo nessun’auto in questo tragitto conclusivo dell’avvicinamento, anche se siamo d’estate, di domenica e a mezzogiorno, timing di per sé ideali per il turismo. Il fatto è che la gente è siderata dalla guerra: c’è ben altro a cui pensare. La natura è superba, i guardiani sciatti ma tignosi con gli unici visitatori che noi siamo, il sole batte impietoso. Ma lassù m’attende un tesoro: niente ori – ovviamente ormai da secoli trafugati da tutti quei popoli che qui hanno fatto a turno il bello e il cattivo tempo – ma la continua entrata e uscita nel e dal mistero dell’umana condizione. Se all’inizio del XII secolo il re Giorgio III aveva progettato e cominciato a realizzare questo sito a chiari scopi militari, alla sua morte la figlia Tamara mutò radicalmente il suo scopo, trasformando il sito in un monastero. Se il re qui voleva concentrare e proteggere 50 mila soldati, la principessa trovò il modo di ospitarvi degnamente un migliaio di monaci, per quello che all’epoca era considerato il più grande monastero esistente al mondo.
Soldati e monaci: i primi volevano nascondersi dal nemico per meglio attaccarlo; i secondi, invece, volevano nascondersi dal maligno (il “mondo”) per meglio abbandonarlo. Due modi di nascondersi, in ogni caso. A Vardzia, in quell’epoca, la cosa era possibile e in fondo agevole per il fatto che dinanzi all’attuale parete tufacea traforata – trapuntata, direi piuttosto – si ergeva una sorta di immenso paravento. Dicono fosse alto quanto l’abitato previsto e largo una trentina di metri. L’ideale per nascondersi alla vista altrui e condurre nel contempo una vita relativamente libera. Ma il sogno fu ridotto ben presto in frantumi, letteralmente, perché la paratia di roccia non resistette al violentissimo terremoto che nel 1283 portò morte e distruzione in tutto il Caucaso meridionale.
Il complesso militare e poi monastico era stato completato solo vent’anni prima, dopo più di mezzo secolo di lavori di scavo e decorazione degli innumerevoli vani del complesso. Che, come riesco a capire, possedeva tutti gli elementi di una città seppure nella roccia, seppur verticale: abitazioni, mense, cantine per il vino, acquedotto che trasportava il prezioso elemento da tre chilometri di distanza, farmacia, depositi, negozi e chiese, cappelle e luoghi della cosa pubblica, piazze, quattro porte d’entrata, campanile e forni, fortini e santabarbara. Il tutto distribuito su tredici livelli, un’operazione architettonica non indifferente per l’epoca.
Al quarto livello scopro il gioiello dell’intero complesso di Vardzia, la chiesa dedicata all’Assunzione della Santa Vergine Maria, tutta affrescata – mi dicono che le pitture risalgono al 1184, ma in Georgia ho imparato a prendere tutte le cifre e tutte le date con le necessarie precauzioni –, anche se la visibilità e la riconoscibilità delle singole scene è più che difficile. C’è una Incoronazione della Vergine, naturalmente un’Assunzione, santi e sante, apostoli e profeti, scene bibliche. Tutte avvolte nell’aura di mistero creata dal tempo e dal fumo delle gialle candeline votive, dalla varietà di mani e pennelli, dal luogo stesso. E in fondo sogno e spero che nessuno s’azzardi a mettere mano a quest’opera d’arte, soprattutto se si trattasse di tanti, troppi restauratori georgiani che amano prendersi per nuovi Michelangioli!
Un monaco s’avvicina, avrà trent’anni – la barba è curata e le scarpe perfettamente lucide –; mi spiega che in una ventina di questi buchi vivono sette monaci che pregano quattro ore al giorno e ne lavorano otto, che coltivano i loro orti sopra le montagne, che producono un buon miele e che pescano eccellenti trote, che la vita non è facile lassù, che sì l’esistenza è bella e l’isolamento radicale, che ci sono sei posti letto per gli ospiti e che il governo non dà loro nulla, che Roma è lontana e non è il luogo dove Cristo ha preso dimora…
Ma non m’interessa più di tanto le sue parole, anche se il monaco pare onesto e gentile. M’interessano invece le scale celate nella roccia: quelle che conducono alla sorgente e quelle che permettevano di ripulire i pozzi di aerazione; quelle che permettevano di accedere alle cappelle più recondite e quelle che consentivano di ripararsi da eventuali invasioni… Li salgo e li discendo, quei gradini, trovando nel continuo andirivieni il senso misterioso del luogo: la vita è un continuo salire e scendere le scale del quotidiano e della storia. Le scale del senso della storia, come quella che si sta “facendo” proprio in questi giorni nella Georgia delle infinite guerre. Per qualche semplice fazzoletto di territorio conteso.
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