Così Roger Peyrefitte definì la costiera amalfitana, da Salerno fino a Positano: «Tutto è fatto per dare l’impressione che si sia fuori dal mondo, in un paese incantato: la ferrovia non ha scavato queste montagne; non vi è aerodromo; la strada e il mare sono le uniche vie di accesso. Quelle case bianche, quelle torri, quei castelli, quei palazzi, quei campanili sgranati su erte scoscese sembrano altrettante scale lanciate verso il paradiso». Come non convenire?
Leggo queste righe da una terrazzetta pavimentata con piastrelle di quarta categoria, imbiancata dozzinalmente, ricoperta d’un vecchio e tarlato glicine, protetta da orribili parapetti metallici, appoggiato su un tavolino traballante ricoperto di una tovaglia di plastica maleodorante, seduto per di più su una sedia scomoda e dozzinale. Eppure dinanzi a me si apre una delle più incantevoli costiere del mondo, forse addirittura la più straordinaria. Una serie di brevi promontori rocciosi che paiono sipari scesi dal cielo, uno sull’altro, dal primo, quello dell’albergo più pittoresco al mondo – lo dicono tedeschi, francesi e americani, per una volta d’accordo –, il San Pietro, fino all’ultimo, i faraglioni di Capri, che chiudono la scena prima del mare nostrum. A mezza distanza, le isolette dette “Li galli”, luogo di delizia e perdizione per artisti e mecenati, sembrano voler indicare a chi come me ammira la scogliera che quelle scene sovrapposte sono semplicemente delle illusioni del cielo, che non si era accorto della presenza dell’acqua, tant’era la sua trasparenza.
La sequenza delle scene sovrapposte m’affascina, e non resisto alla tentazione del dolce naufragio in questo mare che ispirò il poeta triste. Quattrocento e passa gradini per scendere alla cala delle sirene, con la prospettiva cangiante per l’increspatura dello specchio d’acqua che si fa via via più imponente, lasciando alle scene sovrapposte uno spicchio di cielo vieppiù limitato, quasi annullandone l’effetto di profondità, saldandole l’una all’altra in un profilo degradante che pare realmente una scala lanciata verso il paradiso. Finché mi chiedo, arrivato a pelo d’acqua, se il paradiso sia l’azzurro del cielo o quello del mare. Forse entrambi.
L’alba successiva mi riserva un’altra tentazione, verso il cielo questa volta. Duemila e passa gradini verso Nocelle, un grapolo di case bianche come la calce aggrappate ai contrafforti del Monte Faito. Cerco la via d’ascesa, da Laurito, poi da Arienzo. Una scalinata interminabile sale al piccolo villaggio, regolare come un’opera d’arte, accompagnata lungo tutto il suo zigzagare che sposa la roccia dalle terrazze di olivi e arance, separate da ciuffi di fichi d’India e da fichi nostrani che spuntano di mezzo ai muretti a secco che trattengono la poca terra di questa contrada aspra e benedetta. Più m’innalzo sul declivio, più le scene sovrapposte si stagliano l’una sull’altra, con i loro profili cangianti e inequivocabilmente unici, straordinariamente unici. Fino alla terrazzetta della piccola chiesa di Nocelle, sul cui bordo una mano sapiente d’artigiano ha intagliato brevi panchine sull’infinito. Ed ecco la sorpresa, speculare a quella della cala delle sirene: lo spicchio residuo è lasciato al cielo che è mare, mentre è la teoria di scene teatrali che occupa il proscenio. Ma l’effetto è identico: un’unica scalinata verso il paradiso, dai gradini certo più elevati, ma assai simile a quella visibile da basso.
Aveva ragione Roger Peyrefitte, ancora lui: «La strada che da Salerno conduce a Positano è sicuramente una delle più belle al mondo. S’inerpica a fianco di montagne selvagge e sopra precipizi ricopererti di vigne e aranceti, lungo una costa frastagliata, dove zampillano pennacchi di schiuma, quando negli anfratti più tranquilli, non vi si dispiegano tutte le sfumature dello zaffiro».
1 commento:
imparato molto
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