giovedì 14 ottobre 2010

Serbia, la pace tra 10 mila anni


1999: intervista all’allora arcivescovo cattolico di Belgrado, Franc Perko, personaggio conosciutissimo a Belgrado, di cui all'epoca era arcivescovo metropolita. Di grande interesse rileggerla dopo i fatti di Genova.


Nato nel ’29, Franc Perko è sloveno. Mi accoglie nel suo studio carico di libri, riviste e soprammobili, che evidenzia una cultura vasta e coltivata: è teologo orientalista e “basilista”. È stato condannato a quattro anni di prigione, che ha scontato dal ’55 al ‘58 proprio a Belgrado. L’arcivescovo fuma la pipa e ha un parlare schietto.

Proprio oggi si festeggiano Cirillo e Metodio, evangelizzatori dei Balcani. Cosa le suggeriscono le vicende dei patroni dell’Europa «a due polmoni», assieme a Benedetto?

«Nell’attuale difficile situazione è molto importante che la chiesa contribuisca alla creazione di una nuova mentalità di perdono, convivenza, e, perché no, mutuo amore. Tra singoli e tra etnie. La pace dipende da questo cambiamento di mentalità, che tuttavia non si può fare dal giorno alla notte. Inutile illudersi. È una sfida, un dovere non solo per la Chiesa cattolica, ma anche per quella ortodossa e per la comunità musulmana. Penso che la mia chiesa sia pronta a questo passo, che anzi sta già compiendo. Ma sono felice che anche la Chiesa ortodossa si sia avviata nella stessa direzione, ammettendo alcuni errori passati. È una speranza; bisogna essere pazienti e ottimisti».

La propaganda del regime è invadente. Ma anche in Occidente spesso non abbiamo informazioni esaurienti. Così si dipinge il popolo serbo come bellicoso e quasi diabolico…

«No. Tutti i popoli sono uguali. Che alcune persone appartenenti all’etnia serba siano sotto l’influsso del male, questo è un altro discorso. Ma di gente così ce n’è in tutti i popoli. Così non si può nemmeno dividere la popolazione tra buoni e cattivi; ma c’è qualcosa che, a mio avviso, ha falsato l’orizzonte politico, religioso e sociale della regione: l’idea della Grande Serbia, che andrebbe difesa (e non conquistata) contro coloro che la minacciano nella sua esistenza. Nella penultima guerra balcanica, quella del ‘91, paradossalmente erano in conflitto solo difensori: mi dica, non è difficile fermare una guerra quando non c’è un solo attaccante, un solo colpevole? Il regime attuale ha usato quest’idea della Grande Serbia anche nel recente conflitto: la Serbia non esisterebbe senza il Kosovo. Alcuni esponenti religiosi hanno appoggiato ripetutamente quest’idea, sin dalla guerra con la Croazia: so per certo che nei giorni precedenti il conflitto, autorevoli uomini di chiesa in Kraijna diffondevano e sostenevano questa teoria. In quell’occasione era stato persino rifiutato un piano croato (detto Z4), per una forte autonomia della regione. E ora, dopo la nuova ripartizione della Bosnia-Erzegovina firmata a Dayton, la Grande Serbia non c’è più. È vero, emerge lo spettro di una Grande Albania, che si esprime tra l’altro nella purificazione etnica attuata dai kosovari albanesi in numerosi villaggi abitati anche dai serbi, già prima di quest’ultimo conflitto. È ora di finirla con queste menzogne storiche e politiche».

La carta dei Balcani è impressionante per il mixing etnico. Sarebbe possibile dividere definitivamente le etnie? Non servirebbe piuttosto un piano per la loro coesistenza pacifica?

«Dividere le etnie nei Balcani è assolutamente impossibile, come ha dimostrato la guerra in Bosnia ed ora il conflitto in Kosovo. Lo ripeto, più che un piano politico (pur necessario) c’è bisogno di un cambiamento di mentalità per giungere alla coscienza che si deve vivere assieme. Solo questo è il futuro, al quale debbono collaborare tutte le comunità religiose. Si conoscono ad esempio i codici di vendetta esistenti tra gli albanesi: in Kosovo i cattolici avevano proposto e realizzato un perdono generale tra tutti gli albanesi, cattolici o musulmani che fossero. I conti erano stati azzerati. Ma i cattolici albanesi non avevano rivolto questo invito al perdono reciproco a serbi e rom. Sarebbe ora opportuno farlo. È vero, ci sono migliaia di morti che pesano sulla bilancia, ma senza azzeramento delle vendette non si riuscirà ad uscirne vivi. La Chiesa cattolica è pronta a fare questo passo, speriamo che lo siano anche i cattolici».

L’Europa si interroga, perché nel suo seno è nata questa guerra, risolta coi bombardieri americani. Quale ruolo può ancora giocare il vecchio continente?

«L’Europa ha fatto molti sbagli, ma ha anche avuto i suoi meriti. Senza la sua presenza - lo dico senza remore - le cose sarebbero andate molto peggio. Dopo il crollo del comunismo, che aveva fatto tacere con la paura le discordanze etniche dando cinquant’anni di apparente pace ai Balcani, i movimenti sociali si sono rimessi in moto. I piccoli popoli, giustamente, non sopportano più di restare sotto il dominio dei grandi. La Russia stessa, con le sue quindici etnie maggiori, è sul bordo dell’esplosione. Penso che il processo di decolonizzazione africana ci insegni qualcosa: le frontiere, quali che siano, debbono restare intatte. Questo principio ha salvato l’Africa dalla totale anarchia. Nei Balcani ha tenuto finché non è venuta fuori quest’idea della Grande Serbia, e tutto è saltato per aria. La Bosnia si è salvata grazie proprio a questo principio dell’immutabilità delle frontiere. Credo che lo stesso possa accadere col Kosovo. Autonomia delle singole regioni, sì. Indipendenza, no».

A suo avviso, quali sono i lati più positivi del popolo serbo?

«L’ospitalità, l’amicizia e il rispetto, soprattutto - a dire il vero - per chi è dalla loro parte. Un giovane studente serbo mi disse un giorno: siamo amici, perché allora non abbiamo la stessa lingua? Gli risposi che dovevamo rispettarci e amarci, ma nella diversità. I serbi sono inoltre eccellenti non solo nel calcio, ma anche nella cultura. È un popolo fiero e nobile».

A quando la vera pace nei Balcani?

«Tra 10 mila anni».

10 mila, senza sconti?

«A meno che la provvidenza non intervenga. Questo lo spero e lo credo».

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