Il premeir cinese Wen Jaobao è in visita in Italia. Ha promesso 100 miliardi di scambi tra Cina e Bel Paese. Visita del 2006 a Shanghai, capitale del capitalismo locale.
Industrializzazioni spinte all’estremo e limitazione delle libertà religiose e di pensiero, consumismo sfrenato e comunismo al potere. Sono contraddizioni a lungo sopportabili? Questo mi chiedo in attesa dell’aereo della China Eastern che mi condurrà a Shanghai, capitale commerciale del Paese: se Beijing è la storia e la tradizione, Shanghai è invece il presente, costruito com’è con criteri di massima produttività e spirito d’iniziativa privata.
Abito in una torre di 35 piani, proprio di fronte al mercato più noto ai turisti occidentali, quello dove si vendono i prodotti di marca europei, in particolare italiani, contraffatti bene: dai Rolex ai Louis Vuitton a Prada e Armani. Tra pochi mesi questo mercato, anche per le pressioni occidentali, verrà chiuso, e i commercianti che vi sono attualmente accolti non avranno più la licenza di vendere. Ma questo, mi spiegano, avrà probabilmente come solo effetto quello di moltiplicare tali templi della copia, perché la capacità riproduttiva cinese e il disprezzo per le leggi internazionali della proprietà è assolutamente irrefrenabile.
Dalla mia finestra si ammirano centinaia di grattacieli, una foresta impressionante di acciaio e cemento, anche se è rivolta verso il Nord, e quindi non riesce a inquadrare Pudong, il massimo centro commerciale della città, che conta il maggior concentrato al mondo di grattacieli assieme alla lontana Manhattan e alla vicina Hong Kong. «Ma sono in media i più alti esistenti», ci tengono a dirmi degli amici. Aggiungono che la corsa ai grattacieli è finita, perché il sottosuolo della metropoli, sottoposta ad un’enorme pressione, comincia qua e là a cedere. Per questo motivo sono state interrotte tutte le estrazioni di acqua dal sottosuolo, e per questo i nuovi progetti vengono valutati uno alla volta, con rigore. Non è nemmeno immaginabile pensare quello che succederebbe se ci fosse un cedimento, fosse anche di mezzo metro, del terreno di Shanghai.
Mi reco a pranzo in un noto ristorante del centro, il Nanxiang Steamed Buns, dove si sono fermati a gustare le prelibatezze della cucina di Shanghai – meno fritta, va detto, di quella di Beijing – persino la regina Elisabetta d’Inghilterra e Bill Clinton. Non costa più di tanto (25 euro in quattro), e si rivela una cucina prelibata: un’infinità di cibi dolci e salati, accompagnati da un tè meraviglioso che sembra sciogliere ogni grasso, con manicaretti che paiono impastati dalle mani di un chef di grandi capacità.
Il ristorante dà su una piazzetta sospesa sopra un piccolo lago in cui sguazza una moltitudine di pesci rossi ingozzata da cento e cento mani generose che si sporgono dai parapetti come stessero nutrendo gli dèi stessi. La folla è traboccante e impenetrabile, un muro, dedita alle più varie attività, in certo modo incurante di chi passa accanto. Siamo nel centro antico della città – antico, si fa per dire, qualche edificio supera appena il secolo o i due –, completamente restaurato e trasformato in un immenso centro commerciale che offre di tutto e di più, dalle effigi di Mao ai profumi di Calvin Klein, alla Bibbia. È in certo senso un buon modo per introdurmi al capitalismo cinese, alla sua incredibile aggressività e, almeno in apparenza, alla sua assoluta mancanza di etica. Tutto è possibile, sotto l’occhio attento del Grande Fratello.
È un impatto forte, quello con Shanghai, 17 milioni di abitanti, una storia in fondo breve, un passato coloniale a opzione plurima, uno sviluppo economico al 30 per cento annuo, un’esplosione edilizia che non ha eguali al mondo. È la città dei grattacieli, di tutte le fogge e le altezze. Ce ne sono a bombetta, a foulard, a punta, a palla, a bustina, a infiorescenza, a borsalino, a piume. E ancora a biscotto, a carota, a sedano, a zucchina, a mango, a melanzana. Ce ne sono bombati e slanciati, tozzi ed esili, giunchi battuti dal vento e querce secolari. Gli architetti del mondo intero vengono qui a vendere i loro progetti ai cinesi, che hanno soldi e mano d’opera a buon mercato, know how e gusto del rischio.
È tutto vero, ma Shanghai, vera città cinese del business, ha l’attenzione dovuta per i suoi edifici più antichi, che vengono preservati e restaurati qui sul Bund sul quale passeggio sul far della sera, illuminato a festa. In questo modo la città cerca di attirare turisti cinesi in primo luogo ma anche europei e americani, tanta valuta pregiata e una riserva di plusvalore impressionante a causa dei ritmi di lavoro e degli stipendi ancora bassi, da Paese in via di sviluppo, e dello yuan che il governo non accetta di rivalutare. Con queste riserve il governo cinese sta comprando il debito estero statunitense, robe dell’altro mondo!
Shanghai ha il concentrato di popolazione di Hong Kong e la vastità dell’abitato di Pechino. Una miscela esplosiva, se non fosse per la straordinaria capacità disciplinare del popolo cinese. Lo penso osservando, al di là del fiume Huangpu, Pudong, uno degli skyline più belli al mondo. Su un grattacielo vengono proiettate immagini della Gioconda, di quadri di Van Gogh, di film di Fellini. Ecco la globalizzazione alla cinese!
Finalmente varco il fiume. Qui sono concentrati alcuni degli edifici più alti e avveniristici della città, attorno a quella Torre della televisione che è diventata il simbolo della città, con le sue due enormi sfere lucenti che ne ornano la base e la cima. Salgo alla sommità del più alto grattacielo della città, quel Jinmao Dasha, edificio cristallino, scintillante, alto ben 420 metri, che negli ultimi 35 piani ospita uno dei più straordinari hotel che esistano al mondo, in un’avveniristica cavità scintillante d’oro. Dalla cima della enorme torre lo spettacolo è vertiginoso, anche se la foschia oggi è particolarmente densa. Si ha l’impressione che un gigante stia giocando coi birilli, che la gravità umana sia più relativa che altrove, e che si possa incarnare per una volta lo scalognato Icaro, ma con più fortuna.
Ai piedi del grattacielo, magnati thailandesi hanno costruito un avveniristico centro commerciale, tutto luci e ammiccamenti e pubblicità. E l’interrogativo essenziale di questa mia visita riprende forma e colori: come può convivere una società comunista, retta ancora da un partito forte e onnipotente, con una società di mercato spietata e tragicamente avviata ad accrescere le disuguaglianze sociali? Le risposte stanno o nella progressiva diminuzione dell’uno o dell’altro: facile pensare che sarà il materialismo spietato a scacciare il comunismo altrettanto spietato. Ma chi poi renderà la gente più felice?
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