Le rovine raccontano più delle costruzioni rimaste in piedi. Nelle macerie di tanta parte dell'Asia centrale, Konyeurgench, in Turkmenistan, è un capolavoro.
Era la vera Urgench, ma gli uzbechi hanno voluto non perdere il suo nome, costruendo un’orrida città con lo stesso nome a un centinaio di chilometri di distanza. Così l’antica capitale del Khorezm ha dovuto chiamarsi Konyeurgench, cioè antica Urgench. Poco male, ciò non toglie nulla alla sua gloriosa storia: il Khorezm, in effetti, faceva figura di un’oasi di civiltà nel deserto dell’Asia centrale. Nel VI secolo a.C. divenne persiano, mentre già nell’VIII secolo gli arabi vi introdussero l’Islam. La grandezza della città divenne reale nel 995, grazie al re Mamun, che unificò il Khorezm: all’epoca l’Amu Darja, l’immenso fiume che viene dal Pamir, attraversava ancora la città. Furono però i Khorezmshah, dinastia selgucide, a dare il massimo splendore alla città. Fino al regno di Muhammad II, che spostò la capitale a Samarcanda, irritando nel contempo il “grandissimo” dell’epoca, Gengis Khan. Risultato: i mongoli distrussero Samarcanda, Bucara, Khiva e Konyeurgench. Muhammad II morì in esilio nel 1221, su un’isoletta del Caspio. Nella città restano i mausolei di suo padre e di suo nonno. Tamerlano ci mise poi del suo, radendo di nuovo al suolo la città, nel 1388. Non si riprese più, Konyeurgench.
Si respira storia da queste parti, che contrasta non poco con la piccola storia che, invece, si vive nell’abitato più recente di Konyeurgench, che fa da corona ai due siti archeologici. Poca roba, ma grande povertà – quella che il presidente-dittatore vuole nascondere alla sua opinione pubblica e, soprattutto, agli stranieri –: un bazar assai povero, pochi edifici pretenziosi di rappresentanza, pressoché inutili, come quelli che ho visto ad Ashgabat, Mary e Dashoguz. Poche attività commerciali e artigianali, per giunta sommarie. Pranziamo in uno dei migliori ristoranti della cittadina, che conta circa 15 mila abitanti, affacciato su una strada polverosa, gestito da una coppia uzbeco-coreana: qui i sovietici, in effetti, avevano fatto traslocare con le buone o con le cattive alcune migliaia di coreani del nord. Tre e solo tre sono i piatti a disposizione degli avventori, cotti in una cucina a vista di sporcizia notevole: spiedini (ne ho fin sopra i capelli), salsicce di pecora (idem) e lenticchie con una sorta di hamburger. Opto per quest’ultima pietanza, nei fatti assai appetitosa, anche se estremamente ricca di calorie. E così comincio a sudare come una fontanella, mentre l’aria condizionata non ce la fa più a sputare fresco. Sopore prolungato seduto su un divano ricoperto da un polveroso tappeto. In effetti la polvere regna sovrana, perché qui le strade secondarie non sono asfaltate. Esco, do uno sguardo dentro un cortile: c’è solo povertà, disagio sociale, trascuratezza. Qui la gente ha come prospettiva storica quella di portare a casa qualcosa da mangiare per la giornata, il mese sarebbe già un lusso. Un vecchio, Ahmad, intabarrato in un abito di lana, come solo i vecchi ormai fanno, mi confessa: «Vivo con la pensione di 15 dollari al mese. Il resto lo tiriamo fuori con altre attività agricole. In famiglia siamo in cinque a dover vivere. Già sopravvivere è importante».
È da queste case e da queste strade che mi inoltro nel primo lotto del sito di Koneurgench, certamente il minore, ma comunque significativo, in particolare per la fede dei musulmani turkmeni, certamente non delle più ortodosse e vive, ma forse sottovalutata soprattutto dal governo laico che vorrebbe ora lunghe schiere di musulmani obbedienti. Due in particolare sono gli edifici che meritano attenzione, due mausolei guarda caso: quello di Najm-ed-Din Kubra (XII secolo) e quello del sultano Ali (XV secolo). Il primo è il luogo più venerato della città, dedicao com’è al maestro sufi che nel XII secolo fondò l’Ordine di Kubra. Si ritiene che la sua tomba abbia poteri terapeutici. Mi diverto a seguire tre donne, giovani e slanciate, che appaiono devotissime, che toccano ogni pietra, che compiono percorsi votivi per me misteriosi, che recitano incomprensibili formule di preghiera. Le fotografo e loro stanno al gioco: la gente turkmena è estremamente affabile.
Ma è all’esterno della città che si trovano i grandi monumenti che testimoniano ancor oggi la grandeur perduta della capitale del Khorezm. Maestoso, anche se di dimensioni in fondo non straordinarie, è il mausoleo di Turabeg Khanym, del XIV secolo, simbolo della rinascita di Konyeurgench dopo il passaggio devastante dei mongoli. È l’edificio antico più importante giunto pressappoco ancora integro all’appuntamento del XXI secolo. È accogliente, armonioso, perfetto anche se in fondo fragile, con la sua cupola esterna ampiamente danneggiata e le decorazioni in ceramica quasi interamente divelte dal tempo, dalle intemperie e dall’incuria. Ma mantiene una sua dignità, la fierezza di un passato glorioso e di un presente un po’ trascurato: non è che i restauri siano poi stati impeccabili e la pulizia lascia a desiderare, coi piccioni che spargono il loro guano ovunque. Ma il rivestimento interno della cupola è rimasto intatto, meraviglioso nei suoi blu e azzurri che in qualche modo vogliono riprodurre la volta celeste. L’osservo nelle sue geometrie che, per volere religioso islamico, prendono il posto delle rappresentazioni figurative. Ma no, che dico, le figure ci sono: le costellazioni e i sogni e i misteri della Terra e del Cielo. Nei fatti il mosaico rappresenta i 365 giorni dell’anno, gli archi a sesto acuto sotto la cupola raffigurano le 24 ore del giorno, mentre i sottostanti archi rappresentano i 12 mesi dell’anno. Le quattro grandi finestre stanno per le settimane del mese.
È faticoso camminare quest’oggi col calore che fa. Ma almeno ora la meta è chiara, lo slanciatissimo minareto di Kutlu Timur, eretto nel 1320, che contende a quello di Bucara il primato dell’edificio antico più alto dell’Asia centrale. Da lontano pare pendente e d’altezza indefinibile – so che raggiunge i 67 metri –, ma avvicinandomi appare certamente ragguardevole, con la sua silhouette aggraziata, quasi un porro gigante, oppure un giunco col suo bulbo. Oppure, perché no, una giovane donna stilizzata. L’apertura d’ingresso è posta a dieci metri d’altezza sopra una fonte alla quale si abbeverano i pellegrini – che coraggio, l’acqua ha il colore della terra quando esce dalla cannella! –. Ci stanno lavorando degli operai, che tuttavia riesco a “corrompere” per qualche manat. 275 gradini – o, meglio, balzi – di altezza sempre diseguale, in un buio impressionante, per poi arrivare alla delusione di un’apertura sommitale a cui non è possibile affacciarsi, tutto è ancora in restauro. E allora scendo, con estrema attenzione, usando la mia lampada frontale benedetta, come fossi nel ventre di una balena posta in posizione verticale, o piuttosto nel cuore di una fede che non cessa di voler salire in alto, sempre più in alto.
Ma i due edifici che più mi incantano sono visibili solo dall’esterno. Si tratta dei mausolei di Sultan Tekesh e di Il-Arslan, rispettivamente nonno e padre di Muhammad II. Mi colpiscono per la forma delle cupole, coniche o quasi, più attente si direbbe al Cielo che alla Terra, protese verso l’alto con le loro ceramiche azzurre a zigzag che sembrano essersi in gran parte staccate proprio nello sforzo di sollevarsi, come le scaglie di ceramica di uno sky shuttle. Dalle contingenze umane alle cose più serie. Hanno un che di indifeso, più che incutere timore, un desiderio di accogliere sotto quella strana cupola uomini e donne e bambini e vecchi, nella speranza di portarli alla gioia della vita piena.
Il resto non ha gran peso archeologico, a Konyeurgench, La fede popolare sembra privilegiare luoghi di recente costruzione piuttosto che le pietre della storia. In particolare la gente si concentra su un mausoleo dedicato alla “vecchia fiamma”, reminescenze zoroastriane. Sulla collinetta attigua, chiamata Kyrkmolla che, probabilmente, ospitava il più antico villaggio di Konyeurgench e dove si combatté l’ultima battaglia, la più sanguinosa, contro i mongoli, sono state scavate ed erette varie tombe e vari luoghi di preghiera. Uno in particolare mi colpisce: un semplice mucchio di sassi sui quali le donne con problemi di fertilità depositano delle culle in miniatura, come voto ai Santi perché concedano loro la grazia della maternità. Mi pare un segno: le civiltà muoiono e, di solito, continuano in forma diversa in altre civiltà, dando in qualche modo loro vita. Non accade sempre. A volte le civiltà perdono la loro fertilità.
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