lunedì 24 gennaio 2011

Sidi Bou Saïd, dove viveva Ben Ali


Un palazzo presidenziale da favola era stato costruito dal deposto presidente Ben Ali nei pressi della cittadina tunisina. Visita del 2005.

Sidi Bou Saïd. Ovvero quando un villaggio, pur avendo una chiara destinazione turistica, nello stesso tempo esprime la vocazione di un popolo e di un Paese.

Sidi Bou Saïd, pochi chilometri a nord di Cartagine, sta sul mare e sta sul cielo. La terra? La cela nel suo ventre, per quanto può. C’è l’azzurro del mare, c’è quello del cielo e quello delle porte, delle finestre, delle balaustre, degli infissi, delle panchine, dei lampioni, delle pattumiere, delle tettoie, dei frontespizi, delle bancarelle… Talvolta persino delle tegole e dei marciapiedi. C’è l’azzurro, soprattutto, dei balconi ricoperti di legno che proteggevano – e proteggono – le donne arabe e tunisine dagli sguardi indiscreti. Azzurro mimetico, ora del cielo, ora del mare, dipende dall’ora e dall’inclinazione solare.

Non è per caso che il paese attiri artisti tunisini – e non solo – su questa collina che degrada verso il Golfo di Cartagine. Paul Klee, un nome per tutti, colui che all’azzurro di queste lande seppe associare ogni altro colore, quasi che dal bianco – l’assenza di colori –, che solo sottolinea, esalta e illumina l’azzurro, volesse esplodere le implicite tonalità racchiuse nel suo nulla che è tutto. Ed è con sorpresa che d’improvviso l’azzurro si moltiplica e si frammenta in mille azzurri, l’uno diverso dall’altro, sfumati o intensi, possibili o impossibili, sfacciati o raccolti.

Il paese culmina nel minareto del piccolo mausoleo dedicato proprio a Sidi Bou Saïd. Ma ai suoi piedi sta placido il Café des Nattes, luogo di ritrovo degli artisti di ieri e di oggi, dove si sorbisce il celebre tè alla menta coi pinoli che galleggiano beffardi e sorridenti nei piccoli bicchieri di vetro. Una pausa sulle sue terrazze dalle balaustre lignee ovviamente azzurre, scrivendo qualche nota sui tavolini altrettanto azzurri sospesi tra cielo e mare, è una di quelle esperienze di pace nell’esaltazione dei sensi oltremodo difficile da dimenticare.

Vi si giunge dalla riva del mare con una lunga salita lastricata che talvolta, qua e là, senza logica apparente, sembra mutare in scalinata leggera e soave, accompagnata a destra e a manca dal candore trapuntato d’azzurro delle abitazioni curate, appena macchiate da qualche bouganviller o dal ciuffo verde d’un albero di limone o d’arancio. Forse non è una scalinata, ma la mimesi delle increspature del mare, o della peluria di nubi che velano appena il cielo.

Sidi Bou Saïd, l’Islam verde fatto azzurro dal sole d’oro. Cioè cielo assolutamente privo di violenza. La moderazione della mancanza di moderazione. È quel che si gode come un’evidenza nell’ultima propaggine del paese occupata da un delizioso bar a terrazze, il Café Sidi Chabanne, a picco sul golfo e sulle stupende ville della cittadina costiera. Delizioso il bar, deliziosi i tavolini bianchi e azzurri, delizioso il sole di novembre. Smodata la bellezza del luogo, con le sue terrazze che paiono gradoni verso l’infinito dell’azzurro. Islamico? Divino.

Poi la discesa verso il porto, una lunga scalinata di pietra vittima della solita incuria della gente del sud. Basterebbe poco per mantenerla pulita, direi quasi incantevole. Ma è nella discesa che scopro infine la terra, anch’essa esasperata: rossa, sfacciatamente rossa, e verde, delicatamente verde come le agavi che la ricoprono. Sidi Bou Saïd nascondeva la terra rossa.

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