Da dove si domina la città, da dove l'esercito s'è mosso, da dove si spera in un cambiamento. Visita del 2005.
Per cercare di capire, salgo alla Cittadella, tra scolaresche in visita ai luoghi più significativi della città e devoti fedeli che salgono alla moschea di Mohammed Alì per testimoniare che Dio è uno, anche se la città è molteplice. I turisti? Ci sono nonostante le bombe piazzate contro di loro, ma paiono diminuire, schiacciati o piuttosto dispersi e sparpagliati dalla maestosità dei luoghi. Ecco il Cairo dall’alto, avvolto nella cappa di smog maleodorante delle scorie e delle mefitiche esalazioni un parco macchine tra i più malandati al mondo. In primo piano le due bellissime moschee del sultano Hassan e quella di ar-Rifai, dove sono conservate le spoglie dell’ultimo scià di Persia, Reza Palhevi. Ecco il Cairo immobile ma mobile, perché persino sui tetti costellati delle nuove steli rotonde al dio catodico la vita brulica, anche le terrazze paiono ospitare il ballo senza ritmo e senza senso apparente della civiltà del caos. Mi sembra di capire da quassù che la democrazia compatibile con queste terre e queste popolazioni non è e non sarà quella dei Montesquier e dei Moro e dei Toqueville, ma forse una forma più autoritaria, con più forza e determinazione, illuminata certo, e rispettosa dei diritti dell’uomo, ma forse con meno leggi; o piuttosto con leggi più semplici delle nostre. Forse addirittura con le leggi coraniche interpretate con clemenza e misericordia, shari’a rivisitata. Chissà.
Perché, mi dico, il caos c’è, a dimensioni impressionanti e poco governabili dalle risorse degli uomini di potere. Ma, nel contempo, da tale caos si riesce sempre ad uscirne, e nemmeno tanto contrariati. E nemmeno tanto distrutti. E nemmeno tanto sconvolti. Convivere nel caos, in ogni caso, crea degli insospettabili anticorpi capaci di riordinare la psiche e l’anima. Forse toccherebbe a un biologo studiare tale fenomeno, più che a un sociologo.
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