sabato 16 aprile 2011

Ouanamethe, la frontiera tra Terra e Marte


Il passaggio tra Haiti e la Repubblica Dominicana è uno choc. Nella stessa isola d'Hispaniola.


Dopo le quasi due ore di strada sterrata tra Savanetté – che mi accorgo, almeno sulla carta, essere a pochi chilometri dalla frontiera della Repubblica Dominicana –, dopo essere passati per un paesello chiamato Gens-de-Nantes, cioè “gente di Nantes” – l'amico deputato Larèche si precipita a spiegarmi che lì erano arrivati dei cittadini della città francese, appunto – giungiamo alla città capoluogo della regione di Ouanamethe (che la mia cartina chiama “Quanamethe”, con gran scandalo dei miei sei compagni di viaggio). Il nostro capo-accompagnatore, come già fatto in due-tre occasioni nel corso del tragitto, si ferma a parlare con uno sconosciuto che gli rimette una busta commerciale gialla, la stessa che gli avevano messo nelle mani gli altri interlocutori, dalla quale egli estrae un plichetto di documenti ricoperti di timbri, che l’onorevole consulta in pochi minuti, per poi sistemare la busta al di sopra dell’impolverato parasole.

Rispetto a Port-au-Prince e a Cap Haitien, Ouanamethe pare un piccolo e insignificante borgo di provincia, con poche decine di commerci e sparse bottegucce ambulanti, rare case a due livelli, pochissimi edifici pubblici, il solito distributore Total e un poliziotto che pare più indaffarato a conversare con le giovani passanti che a regolare il traffico. Al termine dell’abitato, d’improvviso si apre un vasto spazio sterrato, una terra di nessuno, su un limite del quale si ergono i muri bianchi e coronati da robuste spirali di filo spinato di una base dell’Onu. Alcuni grossi truck si riposano, anche se paiono ancora bollenti e impolverati di rosso. Poi, come spesso succede alle frontiere, d’improvviso si materializza l’inconfondibile incrostazione umana del “passaggio”, i pochi reali viaggiatori e i molti che vivono di questa rara specie umana.

Un ponte segna la frontiera, un ponte su un rigagnolo fetido e ridotto a una discarica. Brillano i cinque o sei elmetti celesti dei “caschi blu”, che qui sono uruguagi. Nella poverissima baracca della frontiera haitiana, il deputato ci mette il tempo di due strette di mano a farci apporre i tamponi del visto d’uscita. Non può però accompagnarci oltre il cancello che segna la frontiera, che pare la barriera di una villetta piccolo-borghese, scrostata e un po’ cigolante. Appena al di là, della gente indaffarata ci obbliga a compiere un’operazione poco consueta per una frontiera: lavarci le mani, per giunta da un rubinetto che lascia cadere poche gocce calde e marroni. Forse è il residuo di una profilassi anticolerica. Poi riusciamo a capire dove dobbiamo apporre il visto d’entrata, formalità sbrigata fortunatamente in pochi minuti di caos ordinato. E la frontiera si apre, la Repubblica Dominicana ci accoglie. E il mondo d’improvviso cambia. Nella stessa isola di Hispaniola, due mondi coesistono. Di qua la Terra, di là i marziani. O viceversa?

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