venerdì 9 ottobre 2009

Armenia e Turchia: la riconciliazione?

Domani, a Zurigo, dovrebbe essere firmato un protocollo di intesa tra Yerevan e Ankara per la ripresa delle relazioni diplomatiche e commerciali tra i vicini litigiosi. Restano sul tappeto i problemi della definizione dei confini tra i due Paesi (il Monte Ararat è in Turchia, ma è il simbolo della nazione armena); la questione del Nagorno Karabakh ("isola" armena in terra azera) e, soprattutto, il riconoscimento da parte turca delle responsabilità nel genocidio dell'inizio del XX secolo. Qui sotto, un reportage dal Nagorno-Karabakh da me redatto nell'estate 2007.

L’intero territorio dello “Stato incipiente” è circondato da cime che s’avvicinano o superano i tremila metri, nei cui boschi vivono orsi e cinghiali, linci e lupi. Le si scorgono senza fatica appena si sale di quota. In fondo il Nagorno-Karabakh, l’Alto Karabakh, può essere abbracciato con uno sguardo, coi suoi 4400 chilometri quadrati, un fazzoletto di terra e un mare di problemi. Un territorio che ha conosciuto l’inferno.

Avvicinandosi a Stapanakert L’Alto Karabakh è un’enclave armena in terra azera. L’unica possibilità di entrarvi è un “corridoio” umanitario sotto controllo internazionale, così come, mutatis mutandis, quello che permette all’enclave azera in terra armena, il Nakichevan, di essere collegato con la madre patria. Passata la città di Goris appare il deserto umano della zona-cuscinetto. La strada è quasi sospesa su una lingua di terra di nessuno, contrappuntata tuttavia dalle chiese che l’armenità ha voluto costruire per affermare che questa terra non è azera o turca, gli odiati vicini a Oriente e Occidente. A Kashatrak, uno dei terminali del corridoio, i vincitori armeni dell’ultima guerra hanno voluto costruire una chiesa su uno sperone roccioso, visibile a 360 gradi. E una cappellina è stata eretta anche all’altro capo del cordone. Provocazione o fede? Entrambe, certamente.
Sulle pendici delle montagne si notano scheletri di case spolpate, frammezzati a villette decorose, quasi civettuole. È il retaggio della guerra etnica, qui come altrove. Come a Srebrenica, come a Kigali.
Stepanakert è la capitale di uno Stato che non è ancora tale, città distrutta nella guerra del 1993 e ricostruita di sana pianta, un vanto e una sfida. In effetti c’è ben poco da scrivere su questa “capitale per caso” (la vicina Shoushi lo era sempre stata), se non che è costellata di monumenti in puro stile socialista, che non era destinata a essere una grande città ma che la guerra l’ha catapultata nel vortice della storia, che la sua gente è composta da cittadini e da profughi di tutte le diverse parti del pur piccolo Nagorno-Karabakh.
I miei accompagnatori mi fanno visitare la città, a cominciare da un monumento in laterizi rossi, il simbolo del Paese: un nonno e una nonna, sintesi dei valori antichi e profondi cui la popolazione è attaccata. È commovente l’ingenuità di questa gente, peraltro rotta a tutte le violenze.
I miei amici, poi, mi trasportano come un pacco a mostrarmi ospedali, scuole, ristoranti e hotel orgoglio recente d’una nazione nata dalle ceneri. Il cimitero mi colpisce, quello dei “martiri”, perché è in tutto e per tutto simile a quello che ho visitato a Baku, sulla via degli altri “martiri”: stesse iscrizioni, stesse tombe in granito nero che portano incise al bulino le fattezze del morto… La guerra nasce, cresce ed esplode in primis tra simili, non tra popoli radicalmente diversi ma solo relativamente diversi.

Il presidente in maglietta nera Nel suo palazzo disadorno intervisto il presidente Bako Sahakyan, la cinquantina tossicchiante del fumatore, maglietta nera da combattente, sguardo sospettoso. Eletto nel 2007, ha dovuto far fronte a gravi inondazioni e all’aggressione nel marzo scorso d’una pattuglia azera (15 morti azeri e uno del Karabakh). È discusso, ma qui è normale. Sulla sua scrivania ha sette telefoni e otto telecomandi.
Come presentare il suo Paese agli europei? «È una neonata repubblica che ha storicamente una sua chiara ragion d’essere. Dopo la guerra ha iniziato un processo di ammodernamento e democratizzazione che farà entrare in Paese nella modernità europea». Si rischia una nuova guerra? «Non mi pare. L’incidente di marzo è stato originato dalla voglia di gloria di una pattuglia. Il nostro esercito è forte, e la separazione tra le due linee è sufficiente a mantenere la pace».
Come vivere senza industrie e un commercio adeguato? «Il segreto sta nella speciale relazione che lega i cittadini allo Stato: tutti sono orgogliosi di appartenervi. Purtroppo ci scontriamo col grave problema della emigrazione delle forze migliori». La diaspora? «Se riusciamo a sopravvivere è anche per merito loro. Non solo per gli aiuti materiali, ma anche per il radicamento nei valori dell’armenità». Indipendenza? «Dobbiamo dimostrare che siamo capaci di avere una amministrazione non corrotta e intrisa di valori culturali armeni. Poi potremmo parlare alla comunità internazionale di indipendenza. Siamo prudenti, non vogliamo seguire la via intrapresa da Ossezia del Sud e Abkhazia». Convivenza con gli azeri? «Sarà possibile, non so quando. Abbiamo a lungo vissuto assieme, in buone condizioni. Ma la presenza dei rifugiati, da entrambe le parti, complica tutto. Siamo per la semplificazione dei rapporti».

Il vescovo combattente Di tale avviso non è invece Pargev Martirosyan, arcivescovo armeno-apostolico di Shushi, che sorseggia il tè nel suo luminoso vescovado dinanzi alla cattedrale rinnovata: «Vivere con gli azeri non è possibile. Come potremmo convivere con gente che nel Nakichevan ha distrutto migliaia delle nostre croci, i khatchkar? Spero che il contenzioso aperto dalla vicenda del Kosovo ci porti ad una forte autonomia, secondo il principio della autodeterminazione dei popoli». La guerra è possibile? «Non credo, ma se ci inducessero in battaglia… combatteremmo! Tra quarant’anni forse potremo convivere di nuovo. Ora no».
Il vescovo Pargev è un uomo deciso, che ha fatto la guerra nelle trincee. «Per sostenere i nostri soldati», mi dice. Lo chiamano il “vescovo-mitra”. Conosce bene la storia: «Nel 1921 Stalin decise che il nostro armenissimo Alto Karabakh diventasse azero: proprio allora cominciò la distruzione di Shushi e della regione. Allora avevamo 500 chiese e monasteri: tutti distrutti o chiusi. Finché negli anni Cinquanta Mosca accettò che venissero riaperte due chiese e due monasteri». Il presente è migliore: «In 19 anni abbiamo restaurato e costruito 41 chiese e monasteri, e continuiamo. E le chiese sono sempre piene». Riflette, si liscia la barba pepe e sale, gli occhi gli si inumidiscono: «Nella guerra del 1991-1994 abbiamo perso 65 mila giovani, con 70 mila orfani e disabili, e Stepanakert era un cumulo di macerie: vuol dire che di passi in avanti ne abbiamo fatti!».
È viva l’identità cristiana? «Siamo prima cristiani e poi armeni, e sappiamo che la nostra Chiesa madre non è stata solo uno strumento spirituale, ma ha sostenuto e sviluppato la cultura e la tradizione armene. Questa identità non ci impedisce di dialogare con tutte le religioni, come testimonia la diaspora armena che vive in minoranza in altri contesti religiosi e culturali». E coi musulmani-azeri? «I problemi sono etnici e culturali».

All’Ong La “Helsinki Citizens Assembly” è un’organizzazione non governativa che prepara “operazioni di pace” in tutta la regione del Nagorno-Karabakh: da scuole di cittadinanza a serate di conoscenza tra etnie diverse, all’aiuto per i profughi. «Nelle città si è più aperti che nelle campagne – mi dice Sveta Sangiryan –. La mentalità dei giovani sta mutando, bisogna partire dalla gente, cambiare le mentalità, poi i governi seguiranno. Così accadrà anche da queste parti».
Interviene il presidente dell’Ong, Karen Ohanjamyan: «Ad Amsterdam abbiamo potuto far incontrare azeri e armeni dell’Alto Karabakh, cosa ancora impensabile a livello governativo. Anch’io ho dovuto fare i miei passi, mettendo da parte ricordi e sentimenti per convincermi che dovevo essere un’operatore di pace: era possibile. Certo, convincere i profughi dell’Azerbaijan a incontrare degli azeri non è impresa facile. È quasi impossibile! Ma vogliamo arrivarci».
Qui lavora come cooperante volontaria una giovane della diaspora, Tamar Hayrikyan, di Boston: «Ho deciso di studiare la mia lingua, per poter aiutare la mia Armenia. Ed ora eccomi qui. Per me il rispetto dei diritti umani è fondamentale: per questo ho chiesto di essere destinata al Nagorno-Karabakh, perché c’è bisogno di gente che voglia la pace. L’approccio umanitario mi sembra indispensabile per lavorare anche sui diritti umani che qui vengono poco rispettati ».
Entra una donna bionda ossigenata, ben in carne, dal sorriso contagioso. È azera, si chiama Almas. Per l’Ong ha organizzato un paio di cene per armeni a base di cucina… azera! «Sono rimasta perché sono sposata a un armeno – si piega –. Qui c’erano pochi uomini azeri, e quindi noi ragazze cercavamo il marito anche tra gli armeni. Ora sono felicemente sposata da 34 anni e ho due figli. Non sono né cristiana, né musulmana… ho ricevuto un’educazione sovietica! Anche mio marito è ateo». La guerra? «Terribile! Una guerra soprattutto politica, perché qui in fondo si viveva bene insieme, i problemi erano marginali… Amo gli armeni, quindi non la capivo proprio la guerra. Non ero mai stata rifiutata o emarginata, perché quest’odio?». Non è la situazione migliore, comunque, la sua: «Mi manca il tempo che fu, è ovvio, mi mancano i vicini azeri, la lingua, le relazioni, la mancanza di parenti vicini… Mi manca anche l’Urss, quando solo il libero mercato non esisteva».

Gandzasar Sulla cresta di una collina verde dalla vegetazione quasi impenetrabile svetta la sagoma familiare delle chiese armene. Protetto da un muro di pietra antica, l’affascinante monastero di Gandzasar da un lato è aperto sull’infinito delle valli e dei rilievi, mentre dall’altro è chiuso sulla finitezza del monastero che ospita di nuovo quattro monaci. Tutto, o quasi, è restaurato a dovere. Penetro nella chiesa scontrandomi coi fedeli che escono arretrando per la porta principale, segnandosi alla maniera ortodossa. Dall’interno provengono nenie liturgiche, reminiscenze di lontane profezie sul popolo armeno, più che di vicine promesse. Tutto in Armenia e nella sua Chiesa ha un legame con la tradizione. Apostolica, ovviamente.
Nell’atrio, i candelabri consumano in quantità industriale candeline gialle e distorte che i piccoli fedeli dispongono in geometrie bizzarre. Mi stupisce la fede che la gente mette nel semplice gesto di accendere un cero. Attraverso la soglia di una porta modesta nelle dimensioni ma ricca nelle decorazioni filtrano note e grani: quelle delle salmodie liturgiche, quelli dell’incenso che brucia nel turibolo. Dalla feritoia che s’apre sull’abside, filtra una violenta lama luminosa che si solidifica nelle volute dell’incenso. Tre monaci recitano le formule canoniche. Capisco perché sia stato Gregorio l’Illuminatore a portare il cristianesimo agli armeni nel III secolo.
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Per capire meglio l’Alto Karabakh Regione da sempre abitata in prevalenza da armeni, conobbe l’abominio del genocidio dei primi anni del Novecento. Poi fu destinata dalla geografia staliniana all’Azerbaijan, nel 1921. Appena crollato il regime comunista, gli armeni cominciarono a rivendicare l’autonomia della regione. Dopo scaramucce e scontri iniziati già nel 1988, si scatenò una violentissima guerra, durata dal 1991 al 1994, che provocò persecuzioni per gli armeni che erano in Azerbaijan, in particolare a Baku, e per gli azeri che abitavano il Nagorno-Karabakh. Si dice che vi siano stati 100 mila morti in totale e 200 mila profughi. Cifre enormi, se si pensa che attualmente il Nagorno-Karabakh è abitato solamente da 192 mila persone.

3 commenti:

Anonimo ha detto...

good start

Anonimo ha detto...

Si, probabilmente lo e

Anonimo ha detto...

leggere l'intero blog, pretty good