martedì 18 maggio 2010

Le antiche pietre della Thailandia


Mentre le magliette rosse mettono a ferro e fuoco il Paese e il vecchio sovrano tace, ripenso ad una visita alle più vecchie pietre della regione, quelle di Ayutthaya (gennaio 2007).

Il mese di gennaio in Thailandia è notoriamente il periodo della frescura, dei condizionatori spenti, delle ore più calde del giorno da sfruttare finalmente per vivere e non per sopravvivere, senza doversi rincantucciare in qualche anfratto fresco e ombroso. Sì, è così. Eppure quest’oggi fa un caldo intenso, sui 34 gradi, senza considerare che l’umidità accentua la sensazione di soffocamento. Ma è l’ultimo giorno che posso trascorrere in Thailandia, cosicché mi decido per una gita “fuori porta”, un’ottantina di chilometri a Nord della capitale, nelle pianure centrali del sud, collegate da una scorrevole autostrada. Un’ideale mèta di scampagnata, né troppo lunga, né troppo breve. Per pochi bath affitto un taxi condizionatissimo, il cui autista si offre di accompagnarmi ovunque e comunque: ha già redatto il suo piano di battaglia, l’itinerario perfetto per conoscere in poche ore il gioiello di Ayutthaya. Circuito troppo perfetto. Più mi avvicino al sito archeologico, più maturo la convinzione che luoghi come questi vadano affrontati con la necessaria tranquillità, con il dovuto rispetto per il luogo, l’attenzione alla storia, il rifiuto del puro consumismo turistico. Anche se la temperatura esterna già alle nove di mattina sembra dissuadere da ogni eroismo deambulatorio.

Acquistato un bel cappello bianco a falde larghe – indispensabile –, mi trovo subito sbarrata la strada da alcuni elefanti a uso turistico, condotti da giovanotti vestiti pittorescamente di rosso e di giallo; la prima foto è scattata, dinanzi a quello che forse è l’antico tempio più immortalato dell’intera Ayutthaya, quello di Wat Phra Ram, deliziosamente riflesso in uno specchio d’acqua in cui galleggiano ninfee colorate, quasi delle orchidee. Di fronte a me il prang bombato, quasi ovoidale, o piuttosto a forma di pannocchia ben panciuta, antico nei mattoni rossi che si sgretolano e nell’intonaco di cui restano pochi brandelli attaccati alla costruzione, quasi una scusa per ricordare come tutto sia transeunte a questo mondo, anche la gloria temporale, così come quella spirituale. In questo luogo, in effetti, s’intrecciano la storia della Thailandia e quella del buddhismo theravada, indissolubilmente. Fondata nel 1350 dal re Ramathibodi I che fuggiva da un’infezione di vaiolo nella non lontana Lop Buri, Ayutthaya deriva il suo nome dalla casa di Rama, Ayodhya, come viene chiamata nel poema epico Ramayana. Nel XVI secolo sembra che contasse più d’un milione di abitanti, ed era ammirata da indigeni e mercanti. Venne abbandonata due secoli più tardi, quando fu saccheggiata dai birmani che avevano invaso la Thailandia.

Penetro nel tempio: da subito capisco che qui troverò solo prato spelacchiato – seppur in questo periodo ancora leggermente verde – e spuntoni di rovine, brandelli di muri, escrescenze informi di vecchie forme abitative, qualche pezzo senza testa di statue del Buddha, accanto a stupa e prang votivi ancora relativamente integri, forse semplicemente perché, nella rovina generale dei regni e degli imperi, qualche anima pia ha voluto conservare almeno i più importanti di quei simboli religiosi. Il sudore cola sulla fronte, sul volto, sul corpo. Nel mio deambulare appena cominciato e già ansimante ho con me una piantina del sito che da subito mi appare assolutamente inaffidabile nella scala di riproduzione e nella localizzazione dei vari siti. Così, avendo più o meno studiato un percorso ellittico, mi abbandono all’istinto, o meglio all’avvicinamento a vista: gli stupa e i prang, come nelle nostre campagne i campanili, mi fanno da guida, mi indicano la buona direzione. Scorgo ad esempio, tre punte a ovest del primo tempio che visito. Le seguo, le vedo ingrandirsi ed emergere quasi dal nulla fino a occupare stabilmente il campo visivo: ecco il Wat Phra Si Sanphet, una meraviglia, ai limiti dell’antico Palazzo imperiale. Le mura sembrano essere state stritolate da un cataclisma, nulla è più perpendicolare al suolo, nulla ha mantenuto l’aplomb, nulla pare offrire punti di riferimento. I mattoni rossi paiono destinati a ineluttabile sgretolamento, polverizzazione, nonostante le protezioni dell’Unesco, per una gestione nel complesso discutibile: quando i danni sono eccessivi, si restaura reintegrando quel che manca.

Proseguo il cammino incrociando altri due o tre templi: Wat Ratchaburana, Wat Mahathat, Wat Thamikkarat. Attraverso ampi spazi in cui sono stati costruiti obbrobri architettonici, scuole palestre negozi, nel bel mezzo del parco, nei quali folle di bambini vocianti festeggiano il Children’s Day, istituito dal primo ministro uscente, un Berlusconi locale, per mostrare al mondo quanto la Thailandia voglia difendere la sua infanzia dalle accuse di pedofilia generalizzata, di sfruttamento, di amoralità. C’è aria di festa, al punto che le grida gioiose dei bimbi m’accompagnano nella scoperta del tempio Wat Mahathat, noto per un albero secolare nel quale una delle radici avrebbe miracolosamente preso le sembianze d’un volto del Buddha.
Dopo quattro ore di cammino sotto il solleone mi sento distrutto ma felice di aver trovato il bandolo della matassa di Ayutthaya. Mi concedo perciò un giro in barca, questione di girare attorno al centro della città, per ritrovare altri approcci, altre vie d’interesse e conoscenza. E di colpo mi trovo a contemplare uno dei più bei templi della città: ecco il Wat Chaiwattanaram, edificato dal re Phrasattong in onore della madre. Un elemento umano in un insieme templare che pare poco umano ora che è cadente, ora che l’impronta dell’uomo si confronta e si mescola a quella della natura. Così è di Ayutthaya, ovunque.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Il semble que vous soyez un expert dans ce domaine, vos remarques sont tres interessantes, merci.

- Daniel