mercoledì 1 settembre 2010

La Madonna del Belucistan



Ho visto la Madonna, l’ho pure fotografata.

Aveva un velo bianco appoggiato sul capo dai capelli corvini.

Indossava una veste rossa nera rosa, a disegni di petali.

La veste le scendeva ai piedi.

Era accovacciata su un tappeto azzurro a righe blu,

in un ambiente che sapeva d’antico, o di rovina piuttosto. Trascurato.

Ma lei brillava di luce propria.

Mi ha scorto entrare per la porta angusta del mausoleo,

mi ha guardato e mi ha seguito con lo sguardo.

Mi sono avvicinato, le ho detto: «Buongiorno», in italiano, che stupido.

Lei mi ha risposto con un modesto cenno della mano.

E con infinito amore.

Se non fossi abbronzato, scommetto che si sarebbe visto il mio rossore.

Mi osservava intensamente, poi abbassava lo sguardo.

Ma non per sfuggirmi, perché subito tornava a catturare le mie pupille,

per ancorarle nelle sue, profonde come il pozzo, nere come i suoi capelli.

Mi vedevo, mi specchiavo nei suoi occhi.

Allora ho avuto la sfrontatezza di levare la macchina che fa foto.

Le ho chiesto se accettava di essere impressa nella sua memoria.

Ha accettato, ancora una volta con un cenno della mano,

di quella destra, appena percettibile.

L’ho immortalata dieci, cento volte.

La luce era perfetta, veniva dalla porta aperta, dalla sua sinistra.

Il suo volto non era particolarmente regolare,

né di straordinaria bellezza:

le labbra sempre chiuse, leggere,

il naso appena un po’ ampio,

le sopracciglia ben disegnate dalla natura.

Ma era una giovane donna in pace con sé stessa e col mondo.

Era una bellezza intima che non lasciava nulla come lo trovava.

La bellezza cambia le cose.

Era una presenza silenziosa, che sembrava dar Parola

a me, alle pietre, alla luce, al creato tutto.

Le ho mostrato gli scatti sul minuscolo schermo.

Sembrava sorpresa, non capiva cosa fossero quelle diavolerie

che pretendevano di riprodurre la realtà. Fedelmente, per giunta.

Ha appoggiato il suo indice sullo schermo,

poi l’ha impresso sulla mia camicia, madido di sudore com’ero.

All’altezza del cuore, come per suggellare un patto.

Non di sangue – troppi l’hanno fatto da queste parti.

Un patto di caldo amore.

Senza aprire bocca mi ha parlato:

«Sei qui, ora, non sei da nessun’altra parte del mondo.

Impara da me che sto chiusa in questo mausoleo,

che mangio pane fritto e yogurt,

che ho solo due vesti, per modestia, perché potrei averne una sola.

Non ho nulla, ma lo Spirito abita il mio spirito.

Non so scrivere né leggere le parole delle convenzioni,

ma so parlare col Verbo dell’amore,

quello che non si scrive né si legge.

Quello che non muore mai».

S’è sistemata sul tappeto, appoggiandosi sulla mano sinistra:

«Impara da me che vivo nell’attesa che qualcuno apra quella porta,

e che trovi in queste pietre, tra queste pietre, il senso della vita.

Che vi trovi l’Uomo, il bambino dell’Uomo.

Sto qui tutto il giorno per svolgere questo compito, solo per questo.

A volte non entra nessuno, anche per mezza giornata,

e allora passeggio nel mio cuore con il mio Sposo. Lo conosci?

Puoi esserlo tu, può esserlo chi verrà dopo di te, o prima.

Perché mio sposo è il cuore puro e aperto,

quello che sa amare con tutto sé stesso,

cioè dimenticandosi,

vivendo per la sua Sposa,

quella che ha il mio volto e le mie mani,

ma anche le sembianze di ogni donna che conosce l’amore e lo Spirito.

Impara da me che sono nulla,

la più insignificante delle donne del mondo,

quello che mi dicono esistere fuori di qui, dove abiti tu,

dove vivono coloro che passano di qui e m’ignorano,

o quelli che mi lasciano tre manat, quanto mi commuovono.

No, non mi fanno ridere.

Perché ogni atto di amore ha una sua verginità».

Poi un lungo silenzio, la sentivo smarrita: «Vuoi essere mio?».

Smarrito, io stavolta: «Sono tuo, lo sai, lo vedi».

E lei, di nuovo guardandomi

proprio là dove nessuno mai era arrivato – tranne la mia mistica maestra:

«Ora vai, non fotografarmi più, vai per le vie del mondo».

Mi sono permesso ancora: «Per far che?».

«Per amare quel che non è amato».

Allora per la prima volta ho alzato lo sguardo.

La mia Madonna non era sola.

Sulla tovaglia azzurra sedeva un vecchio dalla barba bianca, a punta,

col capo coperto da un cappello di lana di pecora scuro e cilindrico.

Alla sua sinistra ho scorto la sua signora,

una donna dai denti d’oro e dalle forme generose,

vestita d’azzurro e di fiori, un cerchietto d’oro sul capo.

Sorrideva, e gioiva che guardassi la sua figlia.

Poi, ancora, la sorella della mia Madonna,

forse la sua gemella, forse appena più giovane.

Vestiva d’azzurro, solo d’azzurro, con un foulard d’arcobaleno.

Era seria, capiva che con la sorella avevo stretto un patto.

Forse era pure un po’ gelosa.

Il padre di famiglia, cieco o quasi,

m’ha invitato a condividere il loro modesto desco:

yogurt riscaldato con un po’ di panna,

pane fritto nell’olio dei girasoli,

due pomodori e due cetrioli,

il chai, l’onnipresente bevanda del Cielo.

Dalle sue mani sporche, dalle sue unghie scure

ho preso quel pane e l’ho portato alla mia bocca,

dopo averlo intinto nello yogurt che filava – era salato e acido.

Ho accolto sui palmi delle mie mani un cetriolo e un pomodoro.

La sua signora li ha benedetti con due corone di cipolla.

Il vecchio mi ha detto: «Veniamo dal Belucistan,

oltre le montagne e le pianure,

dove c’è sangue e fuoco e morte».

La mia Madonna ha aggiunto:

«Qui invece c’è la pace, la gioia, il tutto e il niente».

Era il suo congedo.

Avrei voluto baciarle la mano, i piedi, i capelli, il lembo della veste.

Ma avvertivo che avrei violato il nostro patto,

più che i divieti dei costumi della sua famiglia. O del Belucistan.

L’ho guardata, l’ho amata, come lei m’aveva amato.

E ho ossequiato il capofamiglia, il vecchio,

come fosse lui l’oggetto delle mie attenzioni.

L’uomo mi ha benedetto, e io gli ho baciato la mano sporca.

Mi ha benedetto di nuovo.

Fuori il sole spaccava le pietre, sul serio.

Ma una brezza leggera m’avvolgeva e tergeva il mio sudore.

Ho trovato la mia Madonna.

Viene dal Belucistan.

Note scritte dopo aver visitato il mausoleo di Muhammad Ibn Zayd, nel sito archeologico dell’antica Merv, nella regione di Mary, in Turkmenistan.

3 commenti:

Paulus ha detto...

Mick!
che bello che quello che scrivi, grazie!
"Ma era una giovane donna in pace con sé stessa e col mondo.
Era una bellezza intima che non lasciava nulla come lo trovava.
La bellezza cambia le cose."

Grazie del tuo vagabondare, è come una parte di me che vive comunque quanto non posso e invece mi piacerebbe.
E sai bene che in qualche modo son lì pure io...
Paolo

Paulus ha detto...

e comunque, hai un bel coraggio a scrivere in certi termini, rischiando di essere molto frainteso.
O forse, hai certezze consolidate alle spalle...

Ricordi che avevi già bucato il mio cuore con i montagnard?

Mi piace molto quando entri così bene nell'anima della terra e della gente della terra.
E comunque sei tu, il tuo vivere a fare la differenza, non loro.

Piccolo appunto: peccato la foto del gruppo presa dall'alto! non ne hai dal "loro livello"? non ti ho mai insegnato ad abbassarti, in ginocchio magari, come per le foto ai bambini? argh, colpa mia!

Fausto Leali ha detto...

che meraviglia, grazie.