martedì 8 febbraio 2011

Come a Preah Vihear

Al confine tra Thailandia e Cambogia gli eserciti dei due stati si combattono per un fazzoletto di terra, attorno ad un tempio khmer. Non siamo lontani dall'immenso complesso templare di Angkor. Visita ad uno di essi, Bakong, simile a quello conteso (dicembre 2009).

È situato un po’ in disparte rispetto all’Angkor Wat e all’Angkor Thom, a est della città di Siem Reap, in Cambogia: Bakong è il più antico “tempio montagna” dell’intero complesso di Angkor, data al IX secolo, quando salì al trono Indravarman I. È quindi un tempio in origine indù, dedicato a Shiva, di cui è scritto che il Lingam fu deportato in loco nell’881. Sono le otto e mezzo di mattina ma fa già un caldo quasi insopportabile. Si penetra per qualche chilometro in un abitato sfilacciato lungo una strada rossa di polvere e di pietra. Le palafitte, tipiche abitazioni della regione, già a quest’ora paiono albergare il riposo degli abitanti che non sanno cosa fare. Al termine della strada, appare un rilievo votivo, i cosiddetti templi-montagna a cinque torri, sul modello dell’Angkor Wat stesso. Una musica ritmata ma leggera, quasi una nenia di campanelle e pezzi di legno battuti, arriva alle mie orecchie mentre percorro il ponte di accesso al tempio, che una volta sicuramente scavalcava un ampio fossato che circondava l’intero sito.

Un giovanissimo monaco vestito di zafferano avanza, mi guarda, mi sorride, gioca colle mie fattezze e il mio abbigliamento. Pare interessarlo più la mia andatura che il mio equipaggiamento fotografico. Meno male. Salgo i cinque gradoni della piramide, cerco di capire come mai gli elefantini posti ai vertici di ogni terrazza siano rimasti qausi intatti, mentre il resto del tempio pare aver subito i danni irreparabili del tempo. Il monaco me ne spiega l’arcano: la pietra è diversa, viene da lontano, dalle montagne thai, che allora erano khmer. Scendo, seguo il fiume della musica che dall’alto si fa più preciso, più scandito, più umano. E mi ritrovo, ai piedi della piramide, sotto un tendone dove si sta svolgendo una cerimonia buddhista, che riunisce oltre a tre monaci anche un centinaio di monache biancovestite, rasate, commoventi nelle loro tuniche candide e stropicciate. Si lasciano fotografare. Una di loro mi si avvicina, mi prende per la mano con la sua, anziana e rinsecchita. Mi accompagna verso una specie di grumo umano, che capisco essere una dozzina di donne intente a cucinare qualcosa, il profumo è invitante. Prende da una graticola uno spiedino e me lo porge, come se mi volesse nutrire per raggiungere il nirvana. La carne è piacevole, dolciastra e speziata. Serpente.

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