Continuano le micidiali inondazioni nella capitale thailandese. Viaggio nella sua bellezza, del 2008.
16 miloni di abitanti la città ce li ha tutti, come dimostra con la sua sola evidenza l’espansione dell’abitato: solo da un decennio o poco più s’è deciso di costruire quei grattacieli che ormai costituiscono le cattedrali del XXI secolo, steli tutte simili e tutte diverse erette al dio-consumo. Anche Bangkok sta cedendo alla moda, o piuttosto alla necessità dell’urbanistica da boom. Eppure ha conservato il pudore e l’intelligenza di farlo con moderazione, senza danneggiare il cuore antico della città che s’estende attorno alle mura del Palazzo imperiale, il Ko Ratanakosin, impareggiabile gioiello dell’arte thai, orgoglio nazionale e vetrina di un intero popolo stretto attorno al suo amatissimo monarca, Rama IX.
Per apprezzare la grandezza e l’intelligenza di Bangkok e dei suoi abitanti, m’avvicino al centro storico con circospezione, a bordo del battello pubblico da tre bath (neanche dieci centesimi di euro), che percorre da Sud a Nord, dal ponte Chao Taksin, la grande ansa del fiume Chao Phraya, che racchiude come nel palmo di una mano i tesori più preziosi della tradizione thai. Così mi accorgo, senza traumi estetici particolari, che qui a Bangkok la foresta di steli esiste da secoli, prima che gli architetti di fine millennio inventassero gli skyscreaper. Se questi ultimi sono dettati dalla contrazione dello spazio, quelli erano invece frutto dell’esigenza di contrarre il tempo, non per grattare il cielo, ma per blandirlo con le umane, umanissime richieste della gente comune, del popolo di Bangkok e della regione.
Le acque del Chao Phraya sono sempre mosse, quasi agitate, e il battello ondeggia fortemente, nonostante la sua mole non sia da moscone. Nella visione nautica, anche le steli ondeggiano vistosamente e sembrano voler aritmicamente farsi presenti ai voleri divini, con insistenza. Gli stupa, o chedi, questo il primigenio nome degli antenati dei “gratta-cielo”, sono in realtà dei “blandisci-cielo”; stanno eretti con la sapienza delle antiche storie e con la giovinezza dell’eterna rinascita. Che brillino d’oro o rilucano di maioliche floreali, che siano più o meno elevati, più o meno affusolati, in ogni caso raccontano un intero popolo e invitano alla gioiosa tensione verso il cielo degli avi, del mistero, del Buddha eterno.
Ecco il tempio di marmo, il Wat Benchamabophit, situato ai bordi del centro della città: da qui parte la mia perlustrazione dei templi più importanti di Bangkok, perché questo è il solo tempio aperto inuna mattinata di festa buddhista. Una scelta obbligata ma in fondo assai propedeutica, per cominciare da un luogo non affollato, direi protetto, in cui poter iniziare ad apprezzare le forme architettoniche della tradizione thai con calma, senza distrazioni. E allora apprezzo l’inclinazione perfettamente calcolata dei tetti, il loro concatenarsi nel reciproco rispetto, le piccole tegole smaltate di rosso e di verde, qualcuna di bianco, le decorazioni dorate onnipresenti e quella specie di rostri votivi che paiono spade sguainate, braccia levate al cielo, strane creature mezze umane e mezze animali dal collo sconfinato proteso verso l’alto. Il tempio, illuminato come da un bacio divino, è immerso in un ampio parco assai curato, diviso in due da un rigagnolo superato da cinque o sei ponti di metallo rosso, con un effetto cromatico superlativo. Gli alberi secolari sono numerosi e vengono onorati e venerati, direi vezzeggiati, viste le corone di fiori, i piccoli Buddha di pochi centimetri d’altezza che la gente depone nelle sue cavità.
Seconda tappa, la cosiddetta “Montagna dorata”, cioè il Wat Saket. C’è già più gente, la folla dei fedeli si fa nutrita e vociante. Silenziosa. Si sale per una settantina di metri di altezza, per una scalinata circolare dai gradini lunghi e irregolari, fino a raggiungere una terrazza sulla quale s’erge un luminosissimo chedi dorato, che dicono racchiuda le ceneri del Buddha, oggetto della venerazione di buddhisti tradizionali ma anche dei seguaci di alcune sette poco ortodosse. Dall’alto la città di Bankok appare una distesa informe avvolta da una massa oleosa che provoca un certo disgusto. Ma tale pastoia informe qua e là lascia trasparire la punta di uno stupa, i tetti di un tempio, le belle armonie dell’architettura templare. E così anche la Bangkok più banalmente consumista acquista una sua dignità.
Con un risciò a motore mi reco quindi a What Pho, il tempio che sta appena a ridosso del palazzo imperiale, il più antico e il più prestigioso della capitale. Qui il cambiamento di scena è impressionante, con una profuzione di strumenti votivi impressionante, volti a onorare l’immenso Buddha sdraiato che giace pacifico e sereno, accettando tutte le preghiere e tutte le fotografie che decine di migliaia di persone ogni giorno gli tributano. E tutt’attrono una vera foresta di stupa, in massima parte maiolicati, ma talvolta dorati o candidi, a segnare un concerto di forme e di suoni, di pensieri e di propositi che solo la divinità può dirimere, giudicare, valutare se non altro. Una scuola di massaggi thai, la migliore in asoluto, è ospitata nel tempio, a testimonianza della bellezza d’ogni traccia di umano che lascia trasparire il divino.
Ancora non oso entrare nel Palazzo reale, meglio attraversare di nuovo i fiume, e immergermi nel Wat Arun, in quello che appare un tempio dimesso ma che, all’avvicinarsi, appare uno degli assoluti capolavori dell’architettura templare della regione indocinese. Non è curato come altri, tirato a lucido, ma ciò sembra conferirgli una forza, una generosità e un’umanità che tanti altri templi non paiono aver conservato. La cosmologia indù-buddhista qui trova il suo massimo splendore attorno alla torre centrale, il prang, coi suoi livelli e le sue regole, le sue cosmogonie. I rivestimenti qui non sono dorati, ma rilucono delle mille e mille tessere di maiolica che arricchiscono le superfici del tempio della materialità rilucente della città.
Wat Phra Kaeo, il Tempio del Buddha di smeraldo conservato nel bot, che doveva superare in bellezza e grandezza i complessi templari di Ayutthaya e di Sukhothai. Finalmente le sue porte si aprono al pubblico. E allora è l’apoteosi della bellezza e della giustezza delle proporzioni, della perfezione delle decorazioni musive e di quelle invece murali, della disposizione urbanistica dei diversi templi e della esatta collocazione per catturare ogni minimo raggio di luce che s’avventura al di sopra del Palazzo reale. Il tempio reale appare la quintessenza della religiosità thai, e nel contempo il modello irraggiungibile e irraggiunto della perfezione architettonica. Forse altri templi in passato, in Indocina, hanno trovato la loro canonizzazione, cioè il loro canone; ma nessuno come questo, ancor oggi nel 2007, risulta così perfettamente riuscito da attirare solo un bisogno di silenzio. Assoluto, protetto dai demoni all’entrata dei templi.
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