È la terza volta che vengo a Tunisi, la prima nel dopo-Ben Ali, dopo quella “primavera araba” che tanta gente ormai preferisce chiamare “transizione araba”, se non addirittura “autunno arabo”. Oppure, per completare la revisione, “inverno arabo”.
Nell’aereo per tre quarti vuoto incontro il vescovo mons. Lahham, che subito mi dice: «È stata e resta una primavera araba, bisogna crederci e bisogna andare avanti con fiducia e speranza». Categorico.Sullo stesso volo notturno, un imprenditore turistico non è per niente dello stesso avviso: «L’economia è in difficoltà, i Paesi europei non ci danno una mano, presi nella grave crisi finanziaria, e così la gente finisce con il cadere nelle braccia degli islamici, che assicurano certezze, quelle che ci mancano come economia e come ordine pubblico. Poco importa che siano religiose, sono pur sempre certezze». Interviene nella discussione una donna cinquantenne, fresca vedova di un modenese, lei tunisina con doppio passaporto: «Non riconosco più il mio Paese, qui ormai non si è più sicuri di nulla. Abito a due passi dalla villa di Ben Ali, e posso dire che non c’è più né sicurezza né libertà come prima. Le donne sono sempre più col velo, i giovani imam barbuti non hanno più rispetto per gli anziani e vogliono insegnar loro come pregare. Siamo alla follia!».
Con le premesse del volo Roma-Tunisi mi accingo a trascorrere un sabato particolare. Avrei dovuto andare in Libia, ma il visto non è arrivato, e quindi mi ritrovo a trascorrere qui a Tunisi l’ultimo giorno dell’anno secondo il vecchio calendario arabo. LA città brulica di gente, i turisti sono quasi inesistenti, gli autoblindo controllano il centro città, ma la polizia in giro è molto rara. Effettivamente noto un bel po’ di foulard, di hijab e persino qualche burqa, in quantità decisamente maggiore rispetto al periodo della dittatura-soft di Ben Ali. I tradizionali capannelli di donne che passeggiano al centro sono sempre più misti, donne velate e donne a capo scoperto, nel rispetto delle rispettive scelte, ma anche segno di una progressiva divisione ideologica della società tunisina. Se non pare che vi siano grandi differenze rispetto al passato, le conversazioni tradiscono una forte tensione. Si parla all’infinito di “transizione”, anche alla radio e alla tv. Qui tutto pare in transizione, ormai, è quasi un ritornello.
I tassisti sono il miglior punto di osservazione della città, come sempre. Anche qui a Tunisi. Mi carica un ex-pescatore, ex-poliziotto, ex-operatore turistico ed ex-disoccupato. La sua Renault Clio è piena di strisci e di bozzi. Parliamo in francese, poi naturalmente viriamo all’italiano, lingua che possiede discretamente, nonostante non abbia mai visitato la Penisola: «Ho tre figli che studiano, debbo pure far vivere la famiglia! – mi spiega –. Quando l’economia va in crisi bisogna darsi da fare. Per questo ho dipinto la mia vecchia auto di giallo e mi sono messo a fare il tassista». Confessa senza particolare stati d’animo né tantomeno vergogne che ha votato per Hennada, il partito che ha vinto le elezioni per l’Assemblea costituente, e che si sta preparando a governare. Il partito che la stampa occidentale guarda con sospetto e che definisce «moderatamente islamico» e di cui si paventa un possibile irrigidimento verso un radicalismo sempre più integrista, con al riproposizione della shari’a, la legge islamica. «Ma non è vero – precisa il tassista Ahmad –, perché Hennada è il solo partito di onesti, non legati al passato regime e assai sinceri nelle loro espressioni. Gli altri partiti sono tutti compromessi, questa è la verità». Come il mio tassista circa la metà della popolazione tunisina la pensa così. Dopo quarant’anni di dittatura che assicurava comunque l’ordine, il caos è visto come la peste. Meglio un deficit di libertà e di ricchezza che di tranquillità sociale.
Effettivamente è un po’ schizofrenica la Tunisia di questi tempi. Assapora insolite libertà – oggi, udite udite, persino i poliziotti fanno sciopero, restando tuttavia al loro posto ma portando un bracciale azzurro in segno di protesta –, ma in fondo non sa cosa farsene, come gestirla, come occupare il proprio tempo. Serve tempo per una democrazia di stile arabo, o meglio di una libertà di impronta araba. Non è detto che debba corrispondere alla nostra democrazia parlamentare. I social network affascinano i giovani acculturati tunisini, li spronano a conquistare le loro libertà, ma nel contempo spaccano in due le famiglie, scavano fossati tra le generazioni, aprono nuove strade ma senza che vi siano i mezzi per percorrerle. In un caffè nel lungomare di La Goulette, al di là della laguna che bagna Tunisi, una giovane donna emancipata – sia nell’abbigliamento che nel vocabolario – mi confida il suo smarrimento, dopo essersi seduta al mio tavolino sua sponte, e un po’ sfrontatamente: «Sono disoccupata ma non posso essere nostalgica dei tempi di Ben Ali. Non sopporto Hennada e le donne col velo, ma in qualche modo invidio le loro certezze. Non sono né carne né pesce, non so chi sono. Mi consolo sorbendo un caffè sulla spiaggia, e sperando di incontrare un uomo italiano che mi sposi e mi porti al di là del mare».
Nessun commento:
Posta un commento