Uno dei castelli più celebri della Danimarca, nella Selandia nord-occidentale. Una visita che consiglierei a tutti gli euroscettici.
Lascio Copenhagen che la nebbia avvolge ogni cosa, ingrigisce l’erba e taglia la testa alle torri. Il piatto Nord pare ancora più piatto, e la nostalgia del Sud assolato mi sfiora anche solo per qualche istante. Il tempo d’imboccare l’autostrada e di puntare decisamente verso settentrione, per scoprire i castelli che rendono celebre e misteriosa la Danimarca. Una trentina di chilometri e la brezza del mare pare modellare cose e case con la sua salsedine e, in fondo, con il tepore della sua temperatura. Di che fare dubitare gli stereotipi del Paese nordico che trema di freddo e vegeta sotto la neve.
M’avvicino al luogo dove l’immenso Shakespeare osò ambientare il suo capolavoro, quell’Amleto che, volenti o nolenti, è diventato l’eroe, l’antesignano, il simbolo dell’uomo che dubita, del pensiero che s’attorciglia su sé stesso alla ricerca d’una soluzione. Nella sua irriducibile solitudine, nella sua universale vicinanza agli uomini e alle donne di ogni tempo, ma ancor più, forse, alle folle smarrite d’oggidì.
Al castello di Kronborg probabilmente William il poeta non vi mise mai piede. Ma tale era la sua fama, già all’epoca, che gli piacque ambientare in questa terra, al limitar del Freddo Mare, la vicenda del re vikingo, Amleto appunto, secondo quanto racconta la Historia Danica di Saxo Grammaticus, omicidio e vendetta, sangue e sentimenti, per immortalare l’umana predisposizione alla complicazione delle cose e alla costruzione di castelli non di pietra ma di carta, di pensieri vani, di mortalissime considerazioni. Certo, il mistero da queste parti pare proprio a suo agio, s’avviluppa attorno alle torri del castello, si nasconde nei mille anfratti creati negli interstizi delle mura e nei circuiti delle stanze segrete. Così come si cela nelle diverse trincee riempite d’acqua che proteggono il maniero e che arrivano fino al mare in una mortale fusione che nei fatti non ha mai luogo. Persino i cigni paiono evitare di mostrarsi alteri della loro fredda bellezza, per nascondere il grazioso capo e l’affusolato collo nell’acqua scura, nera, dei fossati, accentuando in tal modo la misteriosa angoscia che alberga da queste parti.
Un pallido sole riesce tuttavia a forare la coltre di nubi per ridare un po’ di colore alla pietra umida del castello, e delle casematte che l’attorniano, luoghi che oggi albergano artisti e artigiani, ma che una volta ospitavano le milizie poste a difesa del maniero, luoghi di fedeltà ed eroismo, ma guarda caso anche di tradimenti e vigliaccherie. La storia, però, ha la sua parte, quella vera, non quella della finzione letteraria: costruito per volere di Erik di Pomerania all’inizio del XV secolo, fu rimaneggiato da Federico II e da Cristiano IV e usato dalla famiglia reale danese con un certo timore, sì proprio così. Prefericano il vicino Fredriksborg Slot, più solare e pacifico. Come a dire che il dubbio alberga tuttora in queste stanze, come prende dimora ovunque il potere e l’interesse configgente si fanno strada nel cuore degli uomini, così come il vento e il passo umano si fanno strada nelle strette torri delle scalinate del castello, trovando in ogi gradino di pietra un ostacolo o un nuov slancio. Perché il dubbio si nutre di sé stesso e del suo costante salir di tono, di cambiar passo per trovare nuove sfide. O per precipitare nel baratro oscuro d’una scala a chiocciola scura e tetra, priva d’ogni plausibile riferimento alla realtà.
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