Un weekend nella capitale danese ripone fiducia nel valore catartico del tempo.
Sarà che siamo di sabato, ma la città di Copenhagen pare proprio prendersela comoda. Siamo nell’industrioso Nord europeo, ma qui – a parte le ciminiere che al di là dell’Inderhaven fumano un po’ sonnacchiose, la mattina fredda ma assolata pare ospitare solo qualche raro deambulante: una mamma in bicicletta che trasporta nel carrellino anteriore il suo bebè che se la spassa come un mondo; una coppia avanti negli anni che passeggia nel parco del Rosenborg Slot come se stesse misurando la lunghezza del percorso verso il paradiso (o l’inferno, o più probabilmente il limbo degli agnostici); un giovane gay col suo minuscolo bulldog che cerca invano un caffè aperto; i patiti dello jogging del sabato mattina che sfrecciano magrissimi e atletici sulle mura ricoperte d’erba del Kastellet; le guardie intabarrate di pelo che fanno la guardia all’Amaliensborg Slot. E così via, gente che ama il mattino, che ama la luce, che ama la chiarità del sole che fatica comunque a salire sull’orizzonte, restando come trattenuto al suolo da un invisibile filo di nylon. Questa è Copenhagen. Anche.
Nella capitale danese colpiscono gli slot, cioè i castelli, e i parchi, in questa stagione dipinti dei colori brillanti ma caduchi dell’autunno declinante. Castelli per modo di dire, perché sono palazzi più o meno originali – da favola il Rosenborg, il più antico, immerso nel verde di un ampio parco curatissimo –, che testimoniano ovviamente più il potere che l’arte; ma che ormai, vista la loro natura obsoleta, servono da libro di storia e di politica, più che da luogi ove si amministra la cosa pubblica. Piace osservarli al sole, ammirarne l’armonia e la purezza delle forme, anche l’ingenuità di talune soluzioni architettoniche. E i parchi, da non tralasciare, perché è lì che la luce si fa limpida e chiara, visto che nei lunghi mesi autunnali e invernali in tante e tante strade i raggi solari riescono solo a spennellare i piani alti, che per questo qui a Copenhagen sono i piani nobili. Paiono perciò dei luoghi paradisiaci, i grandi parchi della città, dove si respira purezza e spensieratezza, dove la ragione della luce supera quella della tenebra, dove giocare coi bambini non è un optional ma un vero momento di gioia, dove giocare a rimpiattino con le ombre lunghe degli alberi diventa una semplice ovvietà.
Ma la luce si trova anche sulla sommità dei campanili, delle torri, delle antenne. Stupenda è la Rundetaarn, che ha una sua lunga storia, sin da quando Cristiano IV ne iniziò la costruzione, nel 1642. Ci si avvita sette volte e mezzo (209 metri di lunghezza) per salire i 35 metri della torre rotonda, inerpicandosi per la lunga rampa in mattoni posati di taglio. Un unico gradino che permetteva anche ai cavalli di salire in cima, trascinando le carrozze dei nobili, fino all’impennata finale, un centinaio di gradini appena, lignei e inerpicati come su una vetta di montagna. Dall’alto, dalla terrazza circolare che racchiude un osservatorio ancora in funzione, la città di Copenhagen appare nella sua frammentazione di bei palazzi antichi e gradevoli moderni building di vetro,di torri rivestite alla sommità di rame verde e di ciminiere pulite e discrete. In basso la gente cammina lenta, un fiume sonnacchioso di formiche ordinate.
E poi, last but not least, c’è la luce dei canali, sempre divisi in due dalla linea di demarcazione fra la luce e l’ombra, belli e colorati come il Nyhavn, che brulica di gente di ogni età in attesa di un caffè, d’un traghetto, d’un amore. La luce nei canali gode dei riflessi che si stampano sulle retine dei viandanti così come sulle facciate delle case che s’affacciano sull’acqua. La luce dei canali, appunto, canalizza la potenza della vitale energia atmosferica nella mediazione con l’abitato, opera d’artista e d’artigiano per un bene comune estetico. Le barche ormeggiate in città paiono incongrue presenze finché l’ubriacatura della luce non porta all’ebbrezza dell’ombra, in cui il principio di realtà lascia il posto al principio di creazione, visto che solo nell’ombra e nella penombra si può immaginare qualcosa d’altro rispetto alla realtà. O una realtà meno cruda e più vivibile.
Copenhagen è vivibile. E bene. Come dimostra la Sirenetta, come suggerisce il Rådhus, come gridano i bambini al parco Tivoli.
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