Mentre il Paese centroasiatico ancora non ha ritrovato la sua calma totale, e la guerra civile non è stata ancora scongiurata completamente, pubblico un reportage scritto in uno dei luoghi più belli del Kirghizistan (agosto 2009).
Ho letto qualcosa sulla remota località della montagna chirghisa che mi accingo a raggiungere, quasi un’oasi di paradiso in una terra per certi versi inospitale. Un lago alpino, romantico e placido, incassato in una regione ricca di flora e fauna, come nessun altro posto in Kirghizistan. Anche nella capitale Bishkek al solo pronunciare il nome di “Sary Chelek” la gente s’apre in un bel sorriso e m’ invidia perché ho la possibilità di recarmi in quell’angolo beato del Paese, per giunta con la fortuna di essere accompagnato da una giovanissima donna originaria di un villaggio della valle, Kyzyltuu. È proprio da lì che comincia la mia avventura.
Nella modesta ma decorosa casa di proprietà di Meymanaly, padre della mia guida Meerim, bevendo tè verde e mangiando i piatti tipici di questa terra – il beshbarmak (le cinque dita, significa), sorta di zuppa di carne di montone e di pasta maltagliata, e l’osh, dell’ottimo riso fritto con carote e cipolle e mescolato con spezzatino di montone, il tutto spolverato con erba cipollina – ho letto nei suoi occhi, pur scurissimi, la profondità del suo amore, simile a quello di tutti i chirghisi, per un angolo del Paese di cui non solo possono andare fieri, ma che può ancora far loro sperare che da qualche parte il rispetto per la natura e per la vita umana in genere esista ancora. Il signor Meymanaly, consigliere dipartimentale, mi esalta qualità e ricchezze della regione di Sary Chelek: «Ci sono altri sette laghi nel parco nazionale, più di cento specie d’alberi, 35 mammiferi recensiti, un migliaio di vegetali e quasi altrettante specie animali. Un paradiso in terra». La notte, trascorsa dentro il parco nazionale, in una piccola guest house, ad Arkyt, gestita con sagacia e semplicità da un chirghiso e dalla sua numerosa famiglia piena di vitalità e di gioia contagiose, mi conferma le ragioni di un tale amore.
Alle sette del mattino si parte, dopo aver mangiato due uova sode e bevuto tè verde, serviti dalla dolcissima figlia del padrone, vestita di rosso scarlatto dalla testa ai piedi. L’aria è fresca, la gente è già nelle strade – pardon, nell’unica strada dei villaggi –, per prendere l’acqua dal torrente, per lavarsi, per spingere i vitelli al pascolo, per andare da qualche parte a cavallo. I bambini abbondano, tutti belli e sporchi, felici per la loro piena e libera infanzia in compagnia di batteri e microbi! C’è naturalezza nell’aria, e le mie attenzioni fotografiche ricevono un’accoglienza divertita e poi compiaciuta, addirittura solenne. C’è bella gente.
Il lago non è vicino: dall’ultimo cancello del parco, per far aprire il quale bisogna pagare, da stranieri, un cospicuo diritto di passaggio, si allungano altri dodici chilometri di strada sterrata, ben peggiore di quella che abbiamo percorso negli ultimi trenta. Ci s’inerpica per una valle che si stringe sempre più, senza tuttavia mai diventare un canyon, con una fresca apertura su panorami mozzafiato e una vegetazione ricchissima, che qui, a parole, viene protetta in modo rigoroso (corruzione permettendo), così come la fauna. Sulla strada incrociamo lepri, volpi e anche un capriolo. I campi sono abbandonati a sé stessi, ovviamente; solo alcuni sono dati in concessione e vengono falciati dai contadini locali con piccole falci antidiluviane. Ma i terreni lasciati al solo dominio della natura sono fioriti come non mai, di tutti i colori dell’iride. Le marchroutcha, i pulmini pubblici antidiluviani, non ce la fanno, la gente deve scendere e percorrere a piedi i tratti più ripidi e dissestati della strada. Ma le donne col foulard e gli uomini col cappello bianco decorato di fili d’oro non si lamentano. Avanzano.
Finalmente, scavalcando un passo, appare un piccolo lago; non è ancora la nostra meta, ma la sua tranquilla bellezza trasmette un’insolita serenità. Un’insolita pace. Si sale ancora seguendo un torrente assai impetuoso finché, anche se annunciati dalla sporcizia tipica della gente chirghisa – mucchi di bottiglie vuote e di bucce di anguria e melone –, finalmente appaiono i riflessi del lago che si risveglia ai primi raggi del sole. E l’incanto è allora immancabile. E ci si abbandona alla purezza dell’acqua, alle erte che salgono dallo specchio punteggiate di pini, abeti e noccioli, agli uccelli che sorvolano le brevi insenature, ai canneti che penetrano nel lago come onde verdi sulle onde turchesi, alle montagne innevate che a nord scendono dalla catena dello Chatkal Range.
E poco vale se più tardi mi accorgo che anche qui qualcuno ha costruito una sorta di dacia per i notabili del governo, con tanto di sauna e patio e molo. E se un’accogliente famiglia – che mi offre una colazione alla vodka – qui ha costruito una sorta di ristorante-ostello. E se il signor Meymanaly in persona ha voluto costruire una piccola moschea in mezzo al bosco…
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