Viaggio in Bolivia/2 Seconda parte del reportage dalle Misiones jesuiticas nella Chiquitania.
Sant’Ana de Velasco Ripartiamo la mattina dopo una lauta colazione. Cavalli galoppano liberi come il vento, i telefoni quasi sempre non hanno connessione, le indicazioni chilometriche sono assolutamente inaffidabili e le cartine sembrano raccontare un altro Paese. Panorami sempre uguali e sempre diversi. D’improvviso un abitato, capanne di fango e casette di muratura, tutto molto lindo, anche certe abitazioni povere hanno il portico sorretto da colonnine lignee tornite. La piazza, Sant’Ana. La prima impressione è quella di un luogo da bambole, ma nella foresta, una rustica copia della chiesa di San Javier, più gialla, più piccola, col tetto più spiovente. Entro nella navata, una classe di giovani sta preparandosi alla cresima, sotto l’inflessibile direzione di un giovane seminarista che sa quello che vuole. Chiede e ottiene risposta, intona e viene seguito nel canto, cita Vangelo e poeti e santi, una lezione evidentemente imparata a memoria. «Non sono ancora in seminario – mi dice –, ma entrerò l’anno prossimo. Voglio andare a studiare a Roma. Qui la gente non è molto impegnata, bisognerebbe che facesse di più. Bisogna istruirla». Ha ereditato qualcosa del rigore gesuita. Visito la Chiesa: è parte della missione fondata nel 1755, ancora con il pavimento in terra battuta e il tetto di fronde di palme, è la più “autentica” di tutte quelle rimaste. Poco importa che la chiesa attuale sia posteriore alla partenza dei gesuiti. Lo spirito è quello. Dietro l’altare s’apre la sacristia, da sempre mi attirano i retrobottega. Ci sono vecchie statue, crocifissi, un magnifico tabernacolo di legno, tutto di legno. Un Cristo su sedia gestatoria mi osserva con uno sguardo un po’ stupito, fisso, attento alla sua missione. Poi vengo attirato dal clamore di un gruppo di bambini: appena fuori dalla sacristia, nel cortile della missione, sotto un immensa quercia una trentina di giovanissimi stanno preparandosi alla comunione, con una catechista meno decisa del seminarista, più dolce, più fraterna. «Mi piace fare la catechista – mi spiega –, perché così riesco a trasmettere quell’amore di Dio che ho sentito quando ho fatto la prima comunione». Abiti qui? «Sì, due quadra più avanti, con sette fratelli e mio padre, mia madre è morta». Dove studi? «Ho studiato a San José. Dalla settimana prossima mi trasferisco a Santa Cruz. Spero di potere tornare qui, perché non mi piace il rumore». La sua pelle scura dice un’origine india. La sua dolcezza dice che viene dalla natura amata. Rientro, l’organo suona qualche nota. Salgo i gradini cigolanti verso il ballatoio, la tribuna sopra la chiesa. Un uomo grosso e tarchiato accarezza lo strumento, restaurato di recente grazie al contributo dell’Unione europea. Un giovane organista francese ci raggiunge e suona Bach in piena foresta. Incantevole. Anche i cresimandi si voltano per vedere chi emetta tali note paradisiache. Fuori la piazza alberata ma non pavimentata come le altre conferisce all’ambiente una nota rustica e incompleta che sfiora la perfezione. Jorge mi dice che tra i suoi apprendisti, ne ha due che vengono da questo villaggio: sono i più disciplinati e i più impegnati nel lavoro. Non protestano mai.
San Rafael de Velasco Arriviamo dopo una ventina di chilometri complicati dallo stato pietoso della strada al borgo di San Rafael. È appena iniziata la messa domenicale. I banchi sono quasi tutti pieni, c’è attenzione appena distolta dalla nostra presenza: veramente gli stranieri da queste parti sono pochissimi. L’interno della chiesa mi appare subito incantevole: chiesa costruita tra il 1743 e il 1747, la prima ad essere costruita in Bolivia. Dettagli lignei e pittorici sono rimasti quelli originali, e si vede, anche se tutto è ripulito e restaurato di fresco, con una certa attenzione si direbbe. Salgo sulla tribuna che è solitamente presente nelle chiese gesuitiche della Chiquitania, dove è appostata una delle due orchestrine che offrono le musiche per la messa: se accanto all’altare ci sono i giovani, con tanto di chitarre e strumenti elettronici, nella tribuna cinque musici anziani suonano tamburo, violini, flauto e campanelle. Sono assai stonati e precari nella loro coesione di gruppo, ma mi appaiono una testimonianza della grandezza dell’opera culturale svolta da queste parti dai religiosi. Esco non dopo aver guardato attentamente degli affreschi, sulla parete centrale, che rappresentano deliziose rappresentazioni musicali, appunto, sotto lo sguardo fisso di un papa su sedia gestatoria di difficile individuazione, e lo sguardo invece dolcissimo di un Gesù bambino felice.
San Miguel de Velasco Nel circuito delle missioni gesuitiche della Chiquitania c’è una chiesa che richiede uno sforzo particolare per essere visitata, è quella di San Miguel de Velasco, che necessita di una deviazione di 35 chilometri (e 35 al ritorno). Ma dicono sia la più bella, artisticamente parlando, dell’intero circuito, e allora ci si sacrifica su una strada tra l’altro in pessimo stato. Nell’ampia piazza alberata – tutti sono spalmati di calce bianca alla base – s’affaccia quindi la chiesa della missione, un po’ rialzata rispetto alle altre, sospesa su una ventina di gradini che consentono anche di appianare il dislivello della piazza: il fronte della missione a nord è a livello della strada. Appare subito straordinaria, con le due figure di Pietro e Paolo – chissà perché – che spiccano per la loro purezza di tratto sulla facciata completamente ricoperta di affreschi di evidente stile indigeno, più che barocco. Appare da subito la meglio restaurata della regione. Costruita nel 1721 presenta stravaganze originali, come il pulpito dorato elaboratissimo e il campanile inserito nelle mura di cinta della missione, le cui sette campane sono ancora in uso. L’oro e il legno e la pietra: la luce, la docilità la sicurezza. Le tre qualità degli indios di questa Chiquitania, almeno mi sembra. La guida ci porta quindi in una scuola di scultura su legno, che occupa un isolato accanto alla Chiesa. È bella, Stanno scolpendo pannelli per una chiesa di tre metri su due, a soggetto evangelico, che costano mille euro l’uno. In Europa costerebbero venti volte tanto. Poi ci fanno passare nello shop… All’uscita la sorpresa: una gomma è bucata. Martin e Jorge la sostituiscono prontamente, dinanzi al ristorantino nel quale ci siamo rifugiati, ma bisogna passare dal gommista. Un’avventura, questa del gommista, con mezzi rudimentali, gomme mille volte riciclate, sotto la supervisione di tutti quelli che passano nei paraggi (scelte condivise!) e alla fine la scelta di una gomma che non è uguale ma solo simile a quelle che usa la nostra Nissan. Si riparte con tre ore di ritardo. Raggiungiamo San Rafael ma dieci chilometri più avanti di nuovo, passando un ponticello di ferro e legno, ci ritroviamo con un’altra gomma a terra. Che fare? Ci sono 100 chilometri di pista prima di San José… Si cambia la gomma e si avanza ad andatura molto ridotta, per evitare una foratura che ci costringerebbe in una situazione poco invidiabile, in piena foresta, con l’inesistenza di organizzazioni di soccorso o di semplici carri attrezzi. Jorge è estremamente guardingo. Arrivati ci dirà che la sua preoccupazione non era quella di rimanere a piedi nella foresta di notte, ma di poter finire in mano a qualche gruppo di disperati che nella zona hanno assaltato di notte alcune auto di passaggio. Oufff…
San José de Chiquitos Ed è così che arriviamo a San José alle otto di sera. Una cittadina modesta, polverosissima, nella quale decidiamo di arrestarci per la notte. Troviamo un alberghetto da quattro soldi, All’Hotel Victoria le stanze sono tutte disposte al piano terra, attorno ad un cortile che funge da sala d’accoglienza, da ristorante, da ufficio e da garage. Nei bambi ci sono… delle rane, e le porte-finestre danno su questo cortile rumorosissimo. Non c’è acqua calda. Ma siamo al riparo. La polvere s’è infiltrata dappertutto, le schedine di memoria della Nikon sono piene, così come i nostri occhi e i nostri cuori. San José des Chiquitos è l’ultima delle sette chiese del circuito delle missioni gesuitiche. Ma non è come le altre: i gesuiti qui misero piede nel 1740, e dieci anni dopo costruirono la chiesa. La missione conta quattro edifici disposti lungo il muro di cinta occidentale della missione: una prospettiva incantevole. L’interno è più simile alle altre chiese gesuitiche della Chiquitania, con profusione d’oro e decorazioni. Non è della stesse forme, delle stesse elaborazioni grafiche, e nemmeno dello stesso spirito. Ma è bella, bellissima nella notte che s’annuncia con la messa partecipata, con le porte aperte sulla piazza. Una Madonna all’ingresso della chiesa è stata addobbata, così come il Gesù Bambino che porta in braccio, da poliziotta, con tanto di cappello. Maria si lascia fare. L’indomani, ottimo caffè mattutino dinanzi alla missione gesuitica, a tratti illuminata da isolati raggi di sole che bucano la coperta di nubi. L’eleganza della costruzione è indubbia, anche se l’originalità rispetto alle altre chiese visitate è indubbiamente minore. Qui si coglie maggiormente quel che dovette apparire agli indios la discesa dei gesuiti nella regione, qualcosa come sarebbe l’apparizione di extraterrestri nella nostra Europa. Extraterrestri, sì proprio così: per gli indios la loro terra era la Terra intera, il mondo, i cui confini arano avvolti nel mistero del pantheon della loro religione ancestrale. L’architettura certamente aveva un ruolo di primo piano nell’evangelizzazione pianificata degli indigeni, che abitavano capanne di paglia e fango e vestivano (raramente) piume e tessuti vegetali. La funzione stupefacente – nel senso di rendere stupiti – dell’evangelizzazione era affidata in primis all’architettura, in secundis alla ritualità. Questa missione di San José è certamente servita all’uopo: ancor oggi gli alunni del collegio della missione che vanno a scuola alle sette del mattino nei loro vestitini tutti bianchi (è il primo giorno di scuola dopo le vacanze invernali) paiono colpiti da uno stupore simile di quello degli antenati, fatte le debite proporzioni.
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