Viaggio in Bolivia 1/Le missioni gesuite del XVIII secolo in Chiquitania
Partenza all’alba, anzi prima Si parte alle cinque di mattina, per visitare le missioni gesuite della Chiquitania, una regione così chiamata perché i colonizzatori spagnoli erano rimasti stupiti dalla bassa statura delle popolazioni locali, che usavano tra l’altro costruire le loro case con porte minuscole. L’uscita da Santa Cruz, nonostante l’ora, è lenta ed esasperante, la città è molto vasta. È un’esperienza esaltante, come sempre, assistere al lento miracolo dell’aurora che muta in alba e poi in giorno pieno. La natura piatta e diradata della regione prende rilievo dalla luce centellinata eppure inesorabile. Si evidenziano gli alberi a forma di ombrello frondoso, i campi di soia e di girasoli si spennellano di chiarità, qua e là svettano i silos metallici. Attraversiamo il Ro Grande, lungo un ponte che ci permette di ammirare il blu del cielo che degrada in rosso e in giallo. Suggestivo. Poi la strada si fa dritta e monotona, come una fettuccia. Sale la temperatura e il vento scompare. Il paesaggio si muove dopo un centinaio di chilometri. La vegetazione pare rimpicciolirsi, schiacciarsi al suolo, la strada è tutta un saliscendi mentre il manto stradale diventa irregolare, talvolta fino a scomparire. Il cielo si riveste di un velo gibboso, a onde, suggestivo e esteticamente gradevole. È pieno inverno, in Chiquitania, e quindi la verzura s’imbrunisce. Da San Ramon a San Javier ci sono 42 chilometri.
San Javier, la sorpresa Chi è abituato al barocco non troverà nulla di straordinario in questa località, salvo che siamo in un buco del buco del mondo (non siamo alle altezze di Potosì e La Paz!). Salvo che qui nel XVIII secolo (erano arrivati nel 1609 nel vicino Paraguay, da dove si erano spostati nei dintorni) si era secoli addietro rispetto a tanta parte del mondo. Salvo che qui i gesuiti costituirono all’epoca una sorta di Stato autocratico, indipendente e teocratico, una forma di governo effettivamente unica: partecipazione e autorità, socialismo ma istituendo un potere forte. Tra l’altro, con un esercito ben attrezzato e organizzato, che da queste parti non aveva eguali. Gli spagnoli, che dapprincipio avevano promosso e favorito l’insediamento in America Latina dei gesuiti, li cacciarono poi, nel 1767, perché facevano ombra al loro impero coloniale e favorivano la promozione umana degli indios, cosa non certo gradita. La forma di governo esistente così sparì in fretta, più in fretta di quanto non fosse cresciuta: basta architetture straordinarie, basta musica barocca suonata dagli indios, basta governo guidato da tre gesuiti e da otto nativi eletti, basta dizionari spagnolo-chiquitano… San Javier era stato il primo insediamento della regione: fondato nel 1691, ben presto si sviluppò rapidamente finché nel 1730 giunse un prete gesuita svizzero, Martin Schmid, che vi installò una scuola di musica, un laboratorio di liuteria, altre attività artigianali. Soprattutto, progettò e realizzò la chiesa, costruita tra il 1749 e il 1752. Oggi questa chiesa, con le altre sei del circuito, è patrimonio universale Unesco.
Visitando il borgo di San Javier, e soprattutto la chiesa, è bene cancellare dalla propria memoria la storiografica europea, le nozioni di arte apprese da noi, cercando di cogliere l’originalità del luogo e delle sue forme, il tetto spiovente (forse qualcosa di svizzero?), le colonne lignee tornite, gli affreschi che tradiscono forme e colori indigeni assolutamente sconosciuti in Europa, e persino nel colonial. La regolarità delle forme architettoniche pare estranea alla cultura locale, ma nel contempo sembra che essa abbia in essa trovato un’accettazione da parte degli indios, che volevano la certezza di una qualche forma di governo. Di arte, comunque ce n’è, e tanta, a San Javier: un Cristo che trasporta la croce, una serie di affreschi a soggetto musicale, un chiostro incantevole… È oggetto di turismo, ormai, seppur rado, e il villaggio intero sembra vivere di esso e dei suoi proventi. Ma non ci sono turisti, o quasi, e quindi oggi a San Javier si sta benone. Si prova ad immaginare la vita al tempo dei gesuiti, la semplicità e in qualche modo la religiosità della gente. Quanto consenziente e quanto obbligata? Teoricamente chiunque poteva rifiutare il “regime” gesuita, ma nei fatti ciò sembrava poco credibile. E allora si medita sull’evangelizzazione e sul potere, sulla pericolosa attrazione tra temporale e spirituale, sulla clerico-centralismo di tanti tentativi d’innovazione sociale (ancor oggi molto evidenti in tanta parte del mondo).
Concepción, il villaggio largo Arriviamo poi a Conception con un’ora circa di auto, una strada gradevole. La terra s’è fatta rossa. In attesa della benzina, c’è la coda, a piedi ci avviamo verso la missione, ci dicono sia a una decina di quadra, d’isolati. Incrociamo la gente e la salutiamo, ricambiati affettuosamente. Entriamo nei negozietti, e i commercianti ci accolgono con calore. Una porta pare fatta a moduli: in basso, attraverso la finestrella degli animali, s’affaccia una bimbetta, mentre la sorellina fa altrettanto in una seconda apertura pi in alto. Le case per larghi tratti sull’affaccio stradale si ornano di portici. Una quadra è la piazza antistante la chiesa, imponente e gentile, assai simile nella forma a quella di San José ma in realtà assai diversa: la “cattedrale” è stata costruita nel 1709, ha una facciata affrescata sorretta da 121 colonne lignee scolpite a mano. Attorno alla chiesa si allunga l’imponente edificio della missione gesuita. Certamente era un gran potere che qui si manifestava agli indigeni. È mezzogiorno, e la missione è chiusa. Ci rifugiamo in un gradevolissimo ristorante, nel cui cortile un pappagallo fa le sue evoluzioni e le sue rimostranze vocali.
La pista in terra rossa. 155 o 164? Non si riesce bene a capirlo, e si comincia così a diffidare dalle indicazioni chilometriche nei rari pannelli indicativi della regione: sarà una costante del tour gesuita. Fatto sta che dura quasi quattro ore l’itinerario sulla pista di terra rossa (una striscia di vegetazione d’un centinaio di metri di larghezza è letteralmente ricoperta di polvere vermiglia) che collega Concepción con San Ignacio de Velasco, dove riposeremo la notte. Polvere che s’infiltra ovunque, alberi fioriti di giallo blu viola rosso, stagni ad ogni avvallamento, fauna ricchissima, soprattutto nelle diverse varietà di uccelli che individuiamo, tucani, pappagalli e aironi inclusi. I rari villaggi sono costituiti da capanne di fango e paglia, coi muri costruiti secondo quell’ordito tradizionale di canne e fango con cui la sapienza popolare ha saputo inventare abitazioni fresche d’estate e calde d’inverno. La povertà regna sovrana, si vive di niente. Diamo un passaggio nel bagagliaio del nostro pick up a una famiglia di una decina di membri, che non godono di alcun reddito. Solo un po’ di caccia e d’agricoltura, e i frutti della natura rigogliosa di queste parti.
A Santa Rosa de la roca, più o meno a metà strada, l’unico paese degno di questo nome lungo l’itinerario, ci fermiamo a comprare qualche bibita. Giochiamo a bigliardino con alcuni ragazzi, mentre una banda tradizionale di anziani (un paio di tamburi, una sorta di piffero, un tipo di armonica e un violino!) si reca suonando motivi tradizionali in una casa colpita da un lutto. I bimbi non sanno dove sia l’Italia, e nemmeno l’Europa. Sanno appena che cinquanta chilometri più in là c’è un posto chiamato Brasile. Sono analfabeti.Poco oltre, in un villaggetto chiamato Villa Nucera, o qualcosa del genere, gli abitanti sembrano essersi trasferiti on the beach, ai bordi dello stagno che segue il grumo di capanne. Si bagnano come natura li creò. Penso ai gesuiti che nel XVIII secolo s’imbatterono in popolazioni ancora più naturalmente semplici che evangelizzarono, come si dice. Erano incivili? Sono incivili? I religiosi hanno portato la civiltà? Capisco come pochissimi boliviani si rechino a far turismo da queste parti, quasi come se le missioni gesuite siano un corpo estraneo alla loro cultura.
Sant'Ignacio de Velasco È collassata nel 1949, la chiesa di sant’Ignacio de Velasco, fu ricostruita in modo orripilante, tanto che nel 1974 fu abbattuta e ricostruita, recuperando buona parte degli elementi originari, di quella chiesa del 1748, che era la più grande ed importante della regione. Dall’esterno si capisce immediatamente come sia posticcia, dalla inguardabile torre campanaria costruita dalla follia architettonica al servizio di una male intesa evangelizzazione, residuo della chiesa degli anni Cinquanta. Scommetto dieci dollari che c’è qualche trucco francescano! Eppure la facciata della chiesa è affascinante, e mostra un restauro ben fatto. Qui a San Ignacio ha sede una nota orchestra da camera e sinfonica (purtroppo il festival di musica barocca è la prossima!): il fatto è che i bambini di queste parti hanno un’incredibile capacità di ascoltare la musica e di impararla a memoria. Hanno le dita adatte agli strumenti a corda, tecnicamente apprendono rapidamente a suonare e riescono a seguire il direttore con facilità.
Alloggiamo in un bed&breakfast chiamato “Casa Suiza”, proprietà di una donna svizzera che, col marito tedesco, si è trasferito da queste parti circa quarant’anni fa, perché aveva adottato un bimbo boliviano di due mesi, che hanno voluto far crescere nella loro terra. Anche quest’incontro inusuale racconta del fascino di queste terre, tra l’altro in parte popolate anche in questi ultimi anni da larghe colonie di mennoniti del Nord Europa. Il villaggio è quadrettato da strade in terra rossa. Vi si trovano piccoli locali che vendono poche mercanzie, mentre tanti grigliano la carne sull’uscio di casa e la vendono ai passanti. I cani, che da queste parti non attaccano mai l’uomo, occupano stabilmente gli incroci delle strade. La bellezza del tramonto s’infrange sulla precarietà dell’abitato.Ceniamo con una bistecca immangiabile, ma «più che il dolor poté il digiuno». Poi ci rechiamo alla messa, preceduta dal rosario, senza grande partecipazione va detto. Alcune donne poggiano sulla balaustra dell’altare delle statutette della Madonna da benedire. Poi, al termine della messa, tutti a fare il giro della piazza, con tanto di ceri e abiti da chierichetti, portando la statua della Madonna del Carmelo, di cui oggi è la festa. Tutti, dai bambini, agli adolescenti, alle vecchiette. Tutti, bianchi e meticci, indios ed europei. All’interno della chiesa le meraviglie d’arte, più che a San Javier e a Concepción, si susseguono. Sono sopravvissuti, ad esempio, le colonne tornite, un Cristo del 1789, un Sant’Ignazio della stessa epoca.
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